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 2022  settembre 07 Mercoledì calendario

Reportage da Pomigliano, ex feudo di Di Maio

Dunque, dicevamo? Ah sì, Di Maio.
«Vuoi un consiglio? Di Di Maio è meglio che qui non ne parli più, potrebbero anche menarti. Qui Di Maio è ormai ‘na lota».
Prego?
«Lota. A Napoli è la miscela di acqua e terra che forma il fango, in termini spregiativi. Ma se credi che a Torino non capiscano, scrivi pure munnezza».
Pomigliano d’Arco. Tre del pomeriggio. Fine estate, fine turno, fine tutto. Via Roma, ultimo lembo prima della zona industriale che un tempo era un pezzo di Nord nel profondo Sud e nonostante tutto conta ancora oltre 20mila addetti tra grandi fabbriche (Stellantis, Avio, Leonardo) e un pulviscolare indotto. Sul tavolo i resti di una pizza margherita e di una birra accaldata quasi quanto noi. Intorno un piccolo spaccato di classe operaia. Mario, 48 anni, due figli, da tre anni funzionario Fiom nelle fabbriche del territorio. Loffredo, 42 anni. Gennaro, 52 anni, due figli.
«Compagni di fabbrica».
Pomigliano è la città natale di Giggino Di Maio. Nel 2010 alle elezioni comunali aveva racimolato solo 95 preferenze. Alle politiche del 2018 fu eletto in questo collegio uninominale con 95mila voti, pari al 64%. Il giorno delle elezioni al seggio di via Sandro Pertini veniva acclamato come «’o presidente». L’indomani, tornato da Roma per festeggiare con i suoi concittadini, si issava su un predellino prima di andare a salutare mamma e papà. La gente gli si avvicinava come a un santo, con le istanze più diverse: «Lui ha detto che dobbiamo chiedere e noi chiediamo». Il parroco, don Peppino Gambardella, lo citava nelle omelie dichiarando non solo di averlo votato, ma anche di «pregare ogni giorno lo Spirito Santo perché diventi premier».
Oggi Di Maio è desaparecido. Spatriato nel collegio Napoli Fuorigrotta, qui non si fa più vedere. «Mi è stato rubato un sogno, non condivido più nulla», gli ha detto don Peppino.
Sono arrivati i caffè. La chiacchierata operaia può cominciare.
«Oggi si vive di sondaggi. Lui ha la percezione che questo non è più il suo feudo. Fino a qualche anno fa era il contrario. Ti menavano se parlavi male di Di Maio. Lo sappiamo bene noi, che non siamo mai stati simpatizzanti, anche quando lui era simpatico a tutti. Alle elezioni del 2018 in fabbrica avevamo difficoltà a parlare con i lavoratori, perché dicevano solo “io voto M5S”. Un consenso dell’80%. Anche a livello di delegati di fabbrica. All’epoca c’erano delegati della Fiom, oltre che degli altri sindacati confederali, che esplicitamente si schieravano per il M5S. Quando facevamo le assemblee e provavamo a muovere qualche critica al reddito di cittadinanza, venivamo zittiti. Allora tutto quello che faceva il M5S andava bene. A prescindere».
Una svolta è stata la vertenza Whirlpool a Napoli. «Quando è cominciata, i lavoratori ci dicevano “vabbè, c’è Di Maio”. Vai a parlare oggi con quei lavoratori. Nonostante il ministro amico, si sono accorti che era tutta fuffa. Noi siamo andati un paio di volte al Mise, ma Di Maio non l’abbiamo mai visto. Una volta, sapendo che veniva a Pomigliano, siamo riusciti a incontrarlo per un quarto d’ora. Diceva solo “adesso vediamo”. L’unica cosa che abbiamo visto è che è sparito».
La separazione con Di Maio e la exit strategy dal governo Draghi, percepito come «amico del poteri forti e contro i lavoratori», ha ridato ossigeno a Conte. «Ha fatto un ritorno al passato e in fabbrica qualche segnale di apprezzamento c’è. Non più l’adesione entusiastica del 2018, ma una preferenza nella logica del “meno peggio”, con rassegnazione». L’opinione tra gli operai sul reddito di cittadinanza è ambivalente. «Da un lato c’è scetticismo, perché garantisce a chi non lavora un reddito non lontano dai 1200 euro di chi come noi si fa il culo sulle catene di montaggio. Dall’altro c’è la consapevolezza che è una delle poche misure per gli ultimi».
Quanto alla destra, «in fabbrica l’aria è che non sfonderà. La Meloni attecchisce tra i giovani, ma noi abbiamo una fabbrica con età media alta e memoria storica. Quello che Salvini dice sul voto operaio per la Lega vale al Nord, ma qui lui non passa. Resta un separatista e poi gli operai hanno capito bene che la flat tax è una porcata. I lavoratori sono stanchi di chiacchiere. Il governo Di Maio-Salvini era stato votato dagli operai, ma non è stato amico degli operai. In Campania sono stati chiusi tre stabilimenti e abbiamo altre crisi aperte. E la politica dov’è?».
Ci sarebbe il Pd, «ma ormai il Pd è percepito come nemico degli operai. Per come si è schierato nelle vertenze sindacali e per il Jobs Act di Renzi, che per chi come noi di Pomigliano aveva riempito 40 pullman per difendere l’articolo 18 resta un tradimento». Una sigaretta segue i caffè, mentre lo psicodramma elettorale dei tre operai racconta «di un’assenza di rappresentanza. La campagna elettorale è lontana, qui c’è un problema di sopravvivenza. Nella sede della Fiom arrivano persone con le bollette aumentate dell’80% che hanno il problema di mettere il piatto a tavola e a cui noi mettiamo 50 euro in tasca. Il salario minimo nelle piccole aziende di servizi sarebbe la salvezza dai contratti pirata e darebbe almeno 200 euro in più al mese, ma se nessuno controlla non serve a niente. Giò oggi abbiamo lavoratori con buste paga da 1400 euro che ne devono restituire 600 in nero al datore, altrimenti sono fuori. Noi denunciamo all’ispettorato del lavoro, ma non succede niente».
L’inflazione ha anche cambiato l’opinione sulla guerra. «In fabbrica se ne è parlato molto all’inizio, ma ora il dibattito è spento. L’empatia per popolo ucraino diminuisce, cresce il dissenso sull’invio delle armi perché il conto della guerra lo paghiamo noi operai. Purtroppo si arriva al punto che uno dice “a me dell’Ucraina non me ne fotte più"».
In una città in cui i laureati fanno i camerieri a 600 euro e ogni mese 200 giovani fuggono lontano, anche all’estero, la grande fabbrica perde fascino. «Prima quando entravi era come un posto fisso nella pubblica amministrazione, eri sistemato a vita. Ora gli operai giovani accettano 75mila euro di incentivo e si aprono un bar o una carrozzeria in proprio». Nel weekend, Pomigliano diventa una capitale della movida. Arrivano da Salerno per il kebab di ‘O talebano e per i panini gourmet di Gigione. «Ma se chiudono le fabbriche, chi va a mangiare la pizza la sera?».
Ci salutiamo. Ma Gennaro torna sui suoi passi. Gli è rimasto in gola qualcosa da dire. «Io sono uno di quelli che alla fine voterà Conte. Per il reddito di cittadinanza. Perché mi immedesimo in chi lo prende. Prima di entrare in fabbrica ero saldatore in una piccola azienda. Litigai col proprietario e me ne andai. Sposato con le cambiali sulla casa e senza lavoro. Passavo le giornate a bussare e a sentirmi dire “ti facciamo sapere” da chi non aveva faccia di dirmi “non ci servi”. Credimi Peppe, è la cosa più brutta sulla faccia della terra quando torni a casa da un colloquio andato male e tua moglie ti chiede: “Allora?"». —