il venerdì, 26 agosto 2022
Colloquio con Jhumpa Lahiri - su "Racconti romani" (Guanda)
Quando, nel 2014, stava per uscire In altre parole, il primo libro di Jhumpa Lahiri scritto direttamente in italiano, un giornale titolò: "Jhumpa ha un amante". L’amante era, appunto, la lingua italiana, oggetto di un colpo di fulmine improvviso quanto totalizzante per questa scrittrice nata nel 1967 a Londra da genitori bengalesi e cresciuta negli Stati Uniti, che di lingue ne aveva già due: il bengalese dei suoi genitori e naturalmente l’inglese, in cui pubblicava con enorme successo. Il suo esordio, L’interprete dei malanni, aveva vinto il Pulitzer nel 2000, dal romanzo L’omonimo Mira Nair aveva tratto un film a cavallo tra Hollywood e Bollywood, la raccolta Una nuova terra aveva debuttato al primo posto nella classifica dei bestseller del New York Times.
Poi, giusto dieci anni fa, l’arrivo a Roma per un periodo di studio all’American Academy: "Voglio vivere almeno un anno in Italia, ho pregato mio marito, solo uno" racconta lei oggi. E una vecchia passione (Lahiri ha un dottorato in studi rinascimentali) si trasforma in bruciante innamoramento, fino a farle decidere di prendere casa qui (l’appartamento con terrazza sulle pendici del Gianicolo in cui la intervistiamo), e di trascorrervi i mesi in cui è libera dal suo lavoro di docente universitaria negli Stati Uniti. Ma l’Italia per lei non è un banale buen retiro, come per tanti altri espatriati di lusso, uno fra tutti Gore Vidal che dopo cinquant’anni a Ravello rilasciava interviste solo in inglese. No, Jhumpa si innamora soprattutto della lingua: la sceglie, la studia, la fa sua. Oggi, spiega, l’italiano in cui conversiamo non è più un travolgente amante - come in quel malizioso vecchio titolo - ma il partner di una relazione stabile, "senza la fatica, la noia, la frustrazione che possono complicare un matrimonio. È davvero la mia metà, anzi, come si dice in inglese, my better half, la mia metà migliore".
Da quel 2014 Jhumpa Lahiri scrive e pubblica solo nella nostra lingua: in inglese sono uscite solo traduzioni (di libri suoi e altrui, soprattutto Domenico Starnone) e un’antologia di racconti italiani del Novecento. Dopo i saggi di In altre parole e Il vestito dei libri, il romanzo-memoir Dove mi trovo e le poesie di Il quaderno di Nerina, il 13 settembre esce (per Guanda, suo storico editore) il nuovo Racconti romani. Il titolo, è, naturalmente, un omaggio ad Alberto Moravia e alle sue due omonime raccolte, pubblicate tra il 1954 e il ’59. "Moravia è stato il primo autore che mi ha insegnato a leggere in italiano, il Virgilio che mi ha accompagnato alla scoperta di questo universo letterario" spiega Lahiri. "Di lui amo il linguaggio puro, preciso, e anche la scelta della forma breve per comporre un gigantesco affresco della città, della sua vita quotidiana, delle tensioni tra classi sociali. Il racconto è un genere spesso poco apprezzato, ma io trovo sia molto adatto a Roma: qui tutti raccontano, anche da un incontro per strada di due minuti vai sempre via con una piccola storia, un regalo da riportare a casa".
Nei suoi racconti Moravia diede voce ai romani dell’immediato dopoguerra, proletari o piccoloborghesi alle prese con le difficoltà della ricostruzione e i primi segnali della Dolce vita e del Boom. Lahiri sceglie di raccontare la città con gli occhi di chi, come lei, non le appartiene pienamente, ma l’ha in qualche modo scelta: stranieri soprattutto, migranti di prima o seconda generazione, turisti appena sbarcati, expat benestanti destinati a ripartire al termine dell’anno accademico o dell’incarico in un’organizzazione internazionale. Nell’ultimo racconto, Dante Alighieri, una giovane americana di probabili origini indiane - ma l’ascendenza etnica dei personaggi non è mai esplicitata, solo sottintesa - sceglie per un caso fortuito l’italiano come materia di studi e finisce per diventarne una specialista, dividendosi tra le due sponde dell’Atlantico. "Ma non è l’unica storia autobiografica" spiega l’autrice. "C’è una parte di me in quasi tutti i protagonisti del libro. Sono persone che si sentono sempre un po’ fuori luogo, cercano una casa o magari hanno troppe case, troppe vite".
"E comunque per me sono tutti romani" continua. "Roma è questo, una metamorfosi continua, un flusso in cui immergersi, e l’italiano mi dà il ritmo per seguirlo, paradossalmente in inglese sono più misurata, ho più paura". La città è raccontata con grande economia di mezzi, i luoghi quasi mai nominati, i capisaldi della Grande Bellezza solo sfiorati, a vantaggio di angoli meno noti ma più vissuti dall’autrice. Come la Scalea del Tamburino, la rampa di 126 gradini che collega Monteverde con Trastevere, proprio sotto la sua casa romana: Lahiri la mette al centro di una lunga sequenza di racconti, con il suo strepitoso panorama e i cocci di bottiglie di birra - residui dei ritrovi serali dei giovani della zona - che minacciano i piedi di chi vi si avventura.
Già, perché l’innamoramento non impedisce alla scrittrice di raccontare anche una Roma sgradevole, inospitale, a tratti violenta. "È un lato che esiste, come in tutte le grandi città, anche se tanti americani preferiscono averne una proiezione falsa, idilliaca. Quante volte mi sono sentita dire: ma in Italia non può succederti niente di male! No, certo, se ci vai solo in vacanza". Così, i suoi racconti esplorano anche le meschinità di certa borghesia intellettuale, espongono i piccoli e grandi razzismi quotidiani subìti dai migranti. "Mi interessa molto l’esperienza di chi si trasferisce qui e cerca di radicarsi" spiega; "tipicamente arrivano prima i maschi, poi fanno venire la moglie, solo più tardi i figli, è un processo lungo e complicato. Io ho potuto anche osservarlo da vicino, incontrando gli stranieri che lavorano al mercato del quartiere, riuscendo a entrare in contatto anche grazie al fatto che parlo bengalese. In fondo continuo a lavorare sui temi dei miei primi libri: ho solo voluto cambiare ambientazione e prospettiva rispetto alle storie degli indiani trasferiti in America come i miei familiari. Ma non ho messaggi da dare, anche in questo seguo Moravia: la letteratura non è politica, se riesco a far riflettere, a spostare qualche punto di vista è bene, ma non ho un’agenda ideologica, non è quello il mio obiettivo".
Dopo alcuni anni a Princeton, Jhumpa Lahiri tornerà all’università dove ha studiato, il Barnard College della Columbia di New York, per insegnare scrittura creativa, italiano e traduzione. Ma prima trascorrerà a Roma un anno sabbatico: "Dovrò fare un po’ di promozione per i Racconti" dice, "ma poi mi dedicherò completamente a Ovidio". Assieme a una classicista, ha cominciato a tradurre le Metamorfosi: il lavoro sarà in inglese, ma lei prende appunti in italiano e usa il vocabolario IL, come generazioni di liceali. "Ovidio è un punto di riferimento fondamentale per me: il poeta che racconta Roma dal di dentro e poi ne viene scacciato e deve ripensarla dall’esilio. Nel mio piccolo mi ritrovo nella sua condizione, esserci e non esserci, presenza e nostalgia. Poi c’è quella parola stupenda che usa spesso, errare, che vuol dire sia sbagliare che vagare... Leggere e tradurre Ovidio sotto il suo stesso cielo è un sogno che si avvera".
Da un punto lontano di quel cielo, dietro la meravigliosa sequenza di cupole e tetti che si vede dalla terrazza, si leva una nuvola di fumo scuro e denso: uno dei tanti incendi che in questa estate hanno devastato la periferia romana. "Alla fine del mio libro" conclude Lahiri, "una donna se ne esce con una battuta, apparentemente dal nulla: ’Che città di merda. Ma quant’è bella’".