Corriere della Sera, 6 settembre 2022
I processi alle Ss
La Germania occidentale fece grande fatica nel secondo dopoguerra a fare i conti con il passato hitleriano. «In meno di sei anni la Germania, commettendo crimini che nessuno avrebbe ritenuto possibili, ha distrutto la struttura morale del mondo occidentale mentre i suoi conquistatori hanno ridotto in cenere le testimonianze visibili di più di mille anni di storia tedesca», scriveva Hannah Arendt in Ritorno in Germania (Donzelli) parlando del proprio Paese come di una «terra devastata e amputata». Winfried G. Sebald in Storia naturale della distruzione (Adelphi) ha messo in evidenza come l’annientamento della Germania «entrò negli annali della nuova nazione, che andava allora costituendosi, soltanto sotto forma di vaghe generalizzazioni e sembrò non aver quasi lasciato postumi dolorosi nella coscienza collettiva».
Il tema fu affrontato da Karl Jaspers che nel 1946 tornò ad Heidelberg (dopo otto anni d’esilio a Basilea) e tenne una serie di lezioni universitarie raccolte poi in La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania (Raffaello Cortina editore). Jaspers affrontò il tema della corresponsabilità di coloro – quasi tutti – che non avevano fatto l’impossibile per impedire i crimini nazisti. Ma il suo divenne in qualche modo un paradigma interpretativo assolutorio. Almeno in parte. Parlare delle colpe di tutti poteva far sì che non fosse adeguatamente affrontato il tema di quei molti che ebbero responsabilità specifiche nella produzione del male. Di questo problema si occupa Tommaso Speccher nell’interessantissimo La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo, in uscita il 9 settembre per le edizioni Laterza.
I conti con il nazismo furono fatti dalla Germania con grande difficoltà. A cominciare dai processi successivi a quelli di Norimberga. Quelli di Norimberga venivano celebrati dai vincitori negli anni che seguirono alla fine della guerra. Adesso toccava ai tedeschi.
Protagonista indiscutibile della «stagione dei conti giudiziari con il nazismo» è, secondo Speccher, Fritz Bauer, un giurista ebreo nato a Stoccarda nel 1903 che era stato, già sul finire degli anni Venti, il più giovane magistrato della Repubblica di Weimar. Dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler, Bauer nel 1933 era stato licenziato e successivamente, per otto mesi, rinchiuso, in quanto socialista, nei campi nazisti di Oberer Kuhberg e Heuberg (assieme a Kurt Schumacher che nel 1946 sarà il rifondatore del Partito socialdemocratico tedesco). Nel 1936 Bauer era riuscito a fuggire in Danimarca e nel 1940 in Svezia, dove assieme al futuro cancelliere Willy Brandt diede vita alla «Sozialistische Tribüne». Rientrò nel suo Paese soltanto nel 1949 per essere nominato direttore generale di uno dei tre tribunali del Land Niedersachsen. Da notare, scrive Speccher, che «per ben quattro anni l’opzione di un posto nella magistratura tedesca gli era stata più volte sorprendentemente negata dagli americani stessi». Probabilmente «anche a causa di certe ritrosie dei vecchi colleghi».
Appena tornato al posto che gli spettava, Bauer si imbatté nel «caso Hannibal». L’ex poliziotto delle SA Wilhelm Hannibal era stato giudicato da una corte alleata britannica colpevole di «crimini contro l’umanità e sequestro di persona» per reati commessi a partire dal 1933. Ma una corte d’appello tedesca l’aveva poi assolto e rimesso in libertà. A giudizio dei magistrati tedeschi, Hannibal «non poteva avere consapevolezza di commettere un atto illegale, visto che stava eseguendo degli ordini nella sua funzione di ufficiale di polizia». Bauer si oppose a questa decisione. Fece riaprire il processo e ottenne una condanna di Hannibal a tre anni di carcere per «privazione illegale della libertà, a partire da un esercizio di un atto arbitrario e consapevole di natura terroristica e criminale». Bauer stabilì che Hannibal aveva «preso parte alla perpetrazione di tali delitti come membro dell’organizzazione criminale nazista». Una sentenza clamorosa (anche se la condanna fu relativamente poco severa) dal momento che il verdetto, del 1950, riprendeva il filo giuridico del processo di Norimberga.
Con questo atto giudiziario, Bauer metteva in evidenza il conflitto già portato alla luce da Ernst Fraenkel – in Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura (Einaudi) – «tra la legalità di uno Stato produttore di leggi e l’illegittimità strutturale di uno Stato arbitrario e sovvertitore di qualsiasi legge». Nel 1952 la Corte Suprema tedesca tornò su quella decisione e cancellò in maniera «definitiva» la condanna di Hannibal. Ma nel frattempo lo sconfitto Bauer si era già imbattuto in un nuovo caso, quello di Otto Ernst Remer.
Remer era il principale rappresentante di un partito, Sozialistische Reichspartei, che nel secondo dopoguerra si proponeva la riabilitazione dell’esercito tedesco per il ruolo «indipendente» che aveva avuto nella Seconda guerra mondiale. La Srp si richiamava a Karl Dönitz, ultimo capo supremo della Wehrmacht dopo la morte di Hitler. Nel corso di un comizio, Remer arrivò a sbeffeggiare Claus von Stauffenberg che il 20 luglio 1944 aveva attentato al Führer, pagando poi con la vita il proprio atto di resistenza. Stauffenberg e i suoi complici, aveva detto Remer nel comizio, «furono essenzialmente dei traditori della Patria». Formulò poi la previsione (auspicio) che, «ben presto», sarebbe venuto il giorno «in cui ci si vergognerà di aver fatto parte» di quel gruppo di cospiratori.
Il processo contro Remer fu assai complesso. La posta in gioco, come è evidente, era la «restituzione dell’onore» alla Wehrmacht i cui reduci intendevano presentarsi come «non compromessi con Hitler». Ma si metteva anche in discussione la legittimità della Resistenza tedesca. Tra il 1950 e il 1951, ricorda Speccher, molti tribunali avevano respinto i processi di revisione delle condanne naziste nei confronti di quelle poche formazioni che si erano battute contro il nazismo (Herbert Baum Gruppe, Rote Kapelle). L’imputato Remer chiamò a testimone perfino il criminale di guerra Erich von Manstein (tale deposizione venne però respinta dalla Corte). Il processo si concluse con la condanna di Remer a tre mesi di carcere per diffamazione. Poco tempo dopo, su input del cancelliere Konrad Adenauer, la Srp fu messa al bando. Ma ex ufficiali collegati al partito di Remer e a Manstein ebbero un ruolo decisivo al momento della ricostituzione, nel 1955, dell’esercito tedesco.
Bauer tornò poi all’attacco con il cosiddetto «processo agli Einsatzgruppen» di Ulm che ebbe con oggetto le atrocità commesse dai nazisti in Europa orientale a partire dal 1941. Un processo breve: durò appena sessanta giorni, dal 28 aprile al 29 agosto del 1958. Fu l’occasione di portare, per la prima volta, sul banco degli imputati alcune figure di spicco delle SS e diversi loro collaboratori. Gli atti, tremila e cinquecento pagine, costituiscono una preziosa documentazione sui crimini hitleriani.
Fondamentale fu in questa occasione il ruolo del procuratore Erwin Schüle il quale, scrive Speccher, «intuì che non era possibile studiare i singoli crimini caso per caso, come era consuetudine del diritto penale quando si trattava di omicidi». Era invece «indispensabile considerare l’intera attività dell’Einsatzkommando di Tilsit». Sul banco degli imputati sedevano personalità di rilievo medio alto come Hans-Joachim Böhme, Werner Hersmann, il poliziotto lituano Pranas Lukys. Il processo mise in luce la loro complicità nella fucilazione di un centinaio di ebrei (gli imputati, sottolinea Speccher, si erano poi «fotografati a vicenda vicino alle fosse comuni, prima di ubriacarsi in una locanda, pagando il conto con i soldi rubati alle vittime e regalandosi tra loro bottiglie di whisky e sigarette»). Nell’arringa finale il procuratore Schüle chiese un castigo severo ma gli imputati vennero condannati solo per «complicità in omicidio» con pene dai quindici ai tre anni e, scrive Speccher, «il verdetto di Ulm fu tristemente esemplare per i processi successivi».
Bauer a questo punto si persuase che in Germania fosse impossibile processare davvero e fino in fondo i criminali nazisti. E decise di passare al governo israeliano informazioni fondamentali per la cattura in Argentina nel 1960 di Adolf Eichmann. Il processo Eichmann tenutosi nel 1961 a Gerusalemme contro colui che tra l’altro era stato il braccio destro del vice protettore della Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich (soprannominato «il macellaio», ucciso a Praga dalla Resistenza nel 1942), fu un processo che ebbe carattere di unicità. Assai diverso ad ogni evidenza da quelli tedeschi degli anni Cinquanta.
Ha messo in luce Annette Wieviorka – in L’era del testimone (Raffaello Cortina editore) – che questo dibattimento segnò la comparsa sulla scena della ricostruzione giuridica, nei tribunali e nei processi di persone che avevano assistito ai crimini, dei loro parenti, dei sopravvissuti «le cui dichiarazioni non vennero più soltanto lette separatamente, ma pronunciate nel corso del processo da uomini e donne in carne e ossa». La condanna a morte nei confronti di Eichmann fu eseguita nel maggio del 1962. Da quel momento fu impossibile anche in Germania procedere contro gli ex nazisti nella maniera assai indulgente con cui si era fatto fino a quel momento.
E per Fritz Bauer venne l’ora della rivincita. L’occasione gliela diede quello passato alla storia come il «secondo processo di Auschwitz». Il «primo processo di Auschwitz» si era tenuto a Cracovia in Polonia nel 1947. Era stato un processo sommario di breve durata, conclusosi con l’impiccagione di ventuno capi del campo di concentramento, l’ergastolo per altri otto imputati, pene detentiva per dieci e un’assoluzione. Il secondo, quello di Bauer, fu affidato a tre giovani magistrati (Joachim Kügler, Georg Friedrich Vogel, e Gerhard Wiese) dell’età media di trentatré anni. Iniziò nel dicembre del 1963 per concludersi nell’agosto del 1965.
La storia di questo processo aveva avuto inizio, nel gennaio del 1945, pochi giorni prima della liberazione di Breslavia da parte dell’Armata Rossa. Gli edifici delle SS e della Gestapo erano stati dati alle fiamme dalla polizia hitleriana. Durante il rogo alcuni documenti erano volati dalle finestre ed erano finiti nelle mani di un ex prigioniero di Auschwitz: Emil Wulkan. Per tredici anni Wulkan tenne nascoste quelle carte. Nel 1958 le consegnò al capo redattore del giornale «Frankfurter Rundschau», Thomas Gnielka, che prese contatto con Bauer. Il quale Bauer comprese immediatamente l’importanza di quei documenti. Si trattava, scrive Speccher, «delle liste di controllo di Auschwitz dove erano state documentate varie fucilazioni, compiute dal turno di guardia delle SS, con date di esecuzione e descrizioni dettagliate». Stavolta Bauer non fu affatto precipitoso e sulle carte di Wulkan riuscì a costruire «non solo il più significativo suo personale successo professionale, ma anche il più grande processo della storia della Bundesrepublik».
Gli imputati erano ventidue, sei dei quali alla fine furono condannati all’ergastolo (gli altri a pene minori). Anche stavolta in secondo e terzo grado molte delle condanne vennero poi ridotte se non revocate. Ma il processo Eichmann aveva insegnato che la cosa più importante sarebbero state le modalità del dibattimento. 183 sedute processuali, lettura pubblica delle settecento pagine dell’accusa, audizione di 360 testimoni (di cui 170 sopravvissuti del campo di concentramento). Il processo ebbe un enorme risalto mediatico e, scrive Speccher, «rappresentò un punto di non ritorno nella percezione collettiva».
La Germania comunista si sentì in dovere di allestire in fretta nel 1966 un proprio, analogo, «processo di Auschwitz». La procedura si basò sulla messa in stato di accusa dell’industria IG Farben – nella persona di Horst Paul Fischer – accusata di essere diretta responsabile della morte ad Auschwitz di settantacinquemila persone. Il processo «definitosi nelle logiche di propaganda tipiche della Ddr», nota Speccher, «fu caratterizzato da un’assoluta mancanza di esercizio del diritto processuale», tanto che all’imputato non venne concesso alcun tipo di difesa. Fischer fu condannato a morte e giustiziato nel luglio 1966.
Quanto a Bauer, finito il «processo di Auschwitz», gli furono posti impedimenti e, utilizzando la sua omosessualità, gli vennero fatte pressioni a che non proseguisse lungo la strada intrapresa. Fu poi trovato morto nella vasca da bagno il 1° luglio del 1968. Nel corpo fu riscontrata la presenza di sonniferi. Il medico legale indicò il suicidio come causa probabile del decesso. Aveva 65 anni. Cinquant’anni dopo furono fatte inchieste giornalistiche che giunsero, tutte, alla conclusione che le indagini sulle cause del suo decesso erano state affrettate.