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 2022  settembre 06 Martedì calendario

Intervista a Bruno Barbieri

È diventato maggiorenne a New York, Bruno Barbieri. «Sono partito dalla provincia di Bologna a 17 anni, con la firma dei miei genitori per poterlo fare. Avevo deciso di lavorare come cuoco sulle navi da crociera». Passato qualche anno – «ne ho compiuti sessanta e mi rompe proprio le palle questa cosa» – l’America è diventata casa sua. «Il punto è che ho sempre cercato nella vita di fare cose che mi potessero stimolare, rincorso orizzonti nuovi. E così, alla mia età, ho deciso di approfondire il mio inglese, che non era un granché. Ho preso casa vicino a Miami e ci resto per una buona parte dell’anno... ormai ho anche imparato a fare i barbecue, da vero americano».
Ha dalla sua sette stelle Michelin, non le sarà risultato difficilissimo...
«Beh ma attenzione, perché qui sulla carne sono preparatissimi, bisogna togliersi il cappello. Per fare il barbecue conta anche il tipo di legna che si usa, l’affumicatura, tante cose. Insomma, c’è sempre da imparare».
Come è nata la sua passione?
«Più che altro dal desiderio di viaggiare. Ero bravo, certo. Fin da piccolo avevo una certa manualità. Ho avuto la fortuna di crescere con una mamma, una nonna e due sorelle meravigliose. Con mia nonna, in particolare, facevamo il pane tutti i giorni, poi le conserve... a tre anni mangiavo le tagliatelle con i tartufi, per dire. Lei e mio nonno gestivano per la curia di Bologna un appezzamento e ci piantavano di tutto».
E dunque cosa c’entra il viaggio?
«Mio padre per lavoro viveva in Spagna: noi lo raggiungevamo in estate e così io, fin da molto piccolo, ho imparato a viaggiare. Questa cosa mi stimolava parecchio, oltre al fatto che forse per me aveva un significato diverso: viaggiare voleva dire raggiungere lui. Quindi a un certo punto ho pensato a un mestiere che mi permettesse di farlo».
Ed ecco la cucina.
«Lui non era d’accordo, mi avrebbe voluto ingegnere credo. Furono i miei vicini di casa a convincerlo ma penso che alla fine, quando è morto, fosse consapevole e felice di aver visto cosa ero riuscito a fare. Non me lo ha mai detto, ma io resto convinto che avesse capito di avere avuto torto».
Non glielo ha mai chiesto?
«Forse sono una persona un po’ troppo orgogliosa. Semplicemente dentro di me mi sono detto: ok, va bene, vuoi che non faccia questo? Ti dimostrerò che ti sbagliavi».
Momenti difficili?
«Eccome. A bordo c’era una gerarchia militaresca e io, a 18 anni, comandavo gente anche molto più grande di me, visto che mi avevano dato da subito quel ruolo... si può immaginare come ho sofferto. Non mi è stato regalato niente e non ho mai chiesto niente alla mia famiglia. Ho anche dovuto vivere senza soldi, all’inizio. Ma avevo la mia idea in testa, sapevo dove volevo arrivare. Poi, certo, ci vuole anche fortuna».
Come mai era rimasto senza soldi?
«Parlo proprio dell’inizio. In nave dormivo in una cabina con altre tre persone: mi rubarono subito tutto per darmi il benvenuto. Sono rimasto un mese e mezzo senza una lira, non avevo i soldi per comprare una bottiglia d’acqua. In pratica non scendevo dalla nave. Ma non mi sono arreso, perché nel mentre avevo anche capito cosa voleva dire avere un mestiere in mano».
Non ha mai pensato di non farcela?
«No, ma di certo questa cosa mi ha fatto diventare adulto prima del previsto. Ho sempre pensato che dovevo cavarmela da solo e l’ho fatto. Sulle navi ho iniziato presto a far capire come la vedevo: il mio nome era dappertutto, mi alzavo alle quattro di mattina e facevo 400 omelette... lavoravo tutto il giorno. Ho imparato in fretta a prendere tutti i miei treni al volo, pensando che un giorno, presto o tardi, il mio momento sarebbe arrivato».
E così è stato. Tra i tanti, ha cucinato anche per Andy Warhol.
«La vita di uno chef è tentare di raccontarla dentro un piatto. Lui diceva che il cibo è una cosa che entra da un buco e ne esce da un altro, poi però la fortuna della sua vita con cosa l’ha fatta? Con quella scatoletta di pomodoro che conosciamo tutti».
Rimpianti?
«No, rimpianti no. Sistemerei qualche piccola cosina ma anche gli sbagli professionali fanno parte del percorso. Come quando ho dovuto scegliere se aprire un ristorante a Los Angeles e invece ho deciso di andare a vivere a Verona. Chissà. Però poi lì ho preso due stelle... esistono anche dei momenti, in cucina. Senza contare che, per me, un grande chef dà il meglio tra i 35 e i 50 anni: questo è un lavoro che se fai come deve essere fatto ti obbliga a rinunciare a tutto».
Lei non ha figli. Fa parte delle rinunce?
«Vista la mia infanzia, essendo cresciuto con un papà lontano, per me era difficile accettare di non vivere una mia eventuale famiglia in un dato modo. Ho fatto delle scelte. Avevo la consapevolezza che io non ce l’avrei mai fatta a rimanere tutta la vita a Bologna perché il mio istinto era quello di correre. Se avessi avuto dei figli, però, avrei voluto essere presente: portarli a scuola, a giocare a calcio, dedicare loro del tempo. Per me la famiglia è quella roba lì».
E adesso è troppo tardi per averla?
«Se hai un figlio a 60 anni ti chiamano nonno. No, non ha senso per quanto mi riguarda. Mi godo i nipoti, i figli degli amici. Ma alla fine non sono pentito: mi sarebbe piaciuto anche fare il pilota di Formula 1, ma non so guidare a 300 all’ora, quindi... Uno decide. Io so dire però che oggi sono una persona che la sera va a dormire felice: mi piace la mia vita, vado in giro, cucino per gli amici, faccio palestra... sono spensierato».
Un vero lusso. Reso possibile anche grazie a «Masterchef»? Di certo le ha cambiato la vita...
«“Masterchef” è stata la benedizione di Gesù. Il coronamento di una vita professionale. Ho fatto tutte le edizioni, sono l’unico e ancora mi ricordo il colloquio iniziale, sulla pernice. Prima di questa trasmissione le persone andavano al ristorante per riempirsi la pancia, ora sanno tante cose in più. È un programma internazionale ma, diciamolo, in Italia lo facciamo meglio che altrove, anche per la nostra storia. Abbiamo dato il via a un cambiamento che adesso sento come necessario anche nel mondo dell’hôtellerie, spesso fermo agli anni Settanta. Ecco perché ho deciso di fare anche questo programma, “4 Hotel” (da domenica riparte su Sky e in streaming su Now). Faccio solo quello in cui credo e non voglio essere un impiegato della banca che lavora in tv. Peccato che ora, tra ristoranti e alberghi io non possa andare più da nessuna parte, perché passo per essere quello che rompe».
Rapporti con gli altri giudici?
«All’inizio di “Masterchef” la situazione con Carlo (Cracco, ndr.) e Joe (Bastianich) era decisamente più impegnativa per i caratteri dei miei due soci: molto forti, duri. Eravamo tre galli in un pollaio, ma nonostante non fosse sempre semplice ho tanti ricordi belli, divertenti».
Litigate?
«Più che altro sembrava sempre di stare su un filo tirato. Non abbiamo mai litigato se non un una volta, fortemente, io e Carlo parlando di un piatto di passatelli con le vongole. Ma dopo quindici minuti di casino totale, tutto è tornato ad essere come se non fosse mai successo niente».
Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli?
«Loro sono molto più ironici e divertenti. Con Antonino c’è un feeling particolare e Locatelli è quello che cerca di tenere un po’ le fila, altrimenti io e lui scherzeremmo dalla mattina alla sera. Ci frequentiamo anche fuori, a telecamere spente, cosa che non succedeva con gli altri due colleghi... insomma, oggi c’è più complicità».
E se deve scegliere tra tutti i suoi colleghi qualcuno che ama per la cucina?
«Sono stato nel ristorante di Antonino e quel giorno hanno cucinato per me lui e proprio Locatelli... a un certo punto mi sono anche preoccupato del conto. Mi sono detto: se qui mi fanno pagare sono rovinato... Ecco, loro sono bravi-bravi. Per me Antonino oggi vale tre stelle, ha una marcia in più di altri».
Se le chiedo di pensare al piatto che ha mangiato nel corso della sua vita e che più di tutti le è rimasto impresso?
«C’è una cosa che ho mangiato e che mi ha letteralmente cambiato la vita. Un piatto inventato da un grande chef, Igles Corelli. Era un germano reale, quindi selvaggina, ma ripieno di astice, con una salsa ai frutti rossi. Un piatto che ho mangiato nel 1983, che non ho più mangiato che nessuno ha mai più fatto, ma che dava una svolta, un cambiamento totale nella cucina, che passava da quella della nonna, della mamma, della zia a una cucina moderna, contemporanea. Quell’input arrivato da un genio con cui poi ho avuto la fortuna di lavorare, per me ha cambiato tutto. Mi ha trasmesso quella parte di follia gastronomica che nessun altro era stato in grado di comunicarmi».
Erano gli anni del Trigabolo di Argenta, ristorante che ha fatto storia.
«Quel tipo lì cucina era sperimentazione, siamo stati quella roba lì, quel cambiamento gastronomico, negli anni Ottanta. All’inizio non guadagnavamo soldi, tanto che per una volta li chiedevo a mia madre per mettere la benzina nella macchina. Ma è stato fondamentale. Eravamo dei matti interessati alla novità: cucinavamo con la musica di David Bowie a manetta come sottofondo, facevamo cose folli, divertendoci e emozionandoci. E anche ora non mi scordo da dove sono partito: è grazie a quelle persone se ho potuto vivere la vita che ho scelto per me».