Corriere della Sera, 6 settembre 2022
Una notte in peschereccio
Son notti e giornate come queste, a bordo: fischi di tramontana – che il pazzo pestifero scirocco non s’inventi imboscate —, piedi nudi per meglio ancorarsi, angurie per pranzo, mani consumate da minatori, urla per farsi sentire, sussurri d’incoraggiamento al motore affinché non si pianti di colpo proprio qui, una permanente estasi dinanzi all’alba rosa, viola e gialla, esultanze per i carichi di calamari, balzi sulle onde, certe logore mappe da pirati, la cabina con i letti, o meglio coperte sul pavimento di assi scolorite. E son vite di mutui e preghiere, preghiere e mutui pur di non rinunciare a un mestiere «antico e duro, anzi bastardo, di fatica bestiale, e però magico, pieno d’amore». Proprietario e comandante d’un peschereccio, Ottavio Galati (si pronuncia accentando la seconda «a»), sposato, due figli, Giuseppe studente di Economia e Federica ballerina, è un assai ostinato 51enne in direzione contraria.
Del resto, nell’Italia degli ottomila chilometri di coste ancora ci piantiamo allo strombazzato Chilometro Zero: «Coi colleghi, una vita fa chiedemmo un piccolo spazio per la vendita diretta, una volta sbarcati. Bastano delle bancarelle, le spese per l’amministrazione sarebbero basse e verrebbe garantito il rispetto delle regole. Continuiamo ad aspettare». Ormai, stupirsi delle lungaggini equivale a un reato. «Con le reti, insieme ai pesci tiriamo su gabinetti, computer, materiale edile, pneumatici. Roba gettata da navi e yacht, o mollata a riva e veicolata dalle correnti. Prima del recente decreto “Salva mare” non potevamo portare a terra l’immondizia, se ti beccavano erano multe».
Dunque, Leuca, lembo peninsulare, provincia di Lecce. Nella seconda metà dell’Ottocento la famiglia Galati aprì una breccia. I proprietari terrieri dell’interno scelsero il paese per la villeggiatura edificando magioni – portici, fichi d’India, gatti, amache, colori tenui – sulla strada parallela al lungomare. E i loro domestici, guardiani, contadini e stallieri quali i Galati, attaccarono a pescare variegando la cucina dei padroni. I Galati trasformarono la pratica in attività lavorativa. «Dai diciott’anni mi sono fatto la trafila: mozzo, cuoco, capopesca, comandante. Orgoglio, testa dura. Ci penso, a cambiare: però, alla mia età, chi m’assume?». Ma si capisce che non è soltanto questo.
L’inizio del turno lavorativo, alle quattro del mattino, ricorda quello di marescialli e autisti: le compagne che ugualmente si alzano così da condividere il caffè e in fondo benedire la partenza. Ottavio e la moglie Assuntina fanno colazione al buio, in veranda. «Lo vedi quel palo della luce? Quando rincaso, si posa sopra un gabbiano. Lo stesso che incrocio in mare aperto. Non è un’invenzione, giuro. Mi segue». Come i delfini. «Affiancano l’imbarcazione, pronti al nostro lancio di cibo».
Ai piedi di Ottavio, un borsone a tracolla. «Mai dimenticarselo». Dentro: documenti, pratiche timbrate, fotocopie, permessi da questo e quell’altro e quell’altro ente ancora... Il peso della burocrazia nell’anacronistico vincolo alla carta anziché alla digitalizzazione. Ma poi, Internet… «Nella fase di uscita dal porto, oltre che la Capitaneria dobbiamo informare il ministero dell’Agricoltura. Peccato che il segnale per effettuare la comunicazione spesso salti, e senza aver ricevuto la conferma da Roma non possiamo muoverci».
Conviene omettere, per evitare un esercizio banale, l’ovvio senso d’invidia verso la libertà di Ottavio e quelli come lui, lontani dalle città- scatolifici, dall’aria infame, dalle malate dinamiche di uffici e colleghi.
«Lascia perdere: il novanta per cento delle persone durerebbe due ore al massimo. Intanto c’è il mare. Da temere. Certo, le previsioni del tempo, dei venti… Ma lui, il mare, fa d’improvviso di testa sua. Capitò una burrasca, il radar andò fuori uso e per forza dovevo cercare di uscire da quel punto sennò saremmo affondati… Salimmo in cima a girare a mano le pale di quel disgraziato radar». Il mare che fa di testa sua… «Una buona pesca non è scontata. Capita di non pareggiare nemmeno le spese». Tipo il gasolio? «Non è per piangere, ma oggi viene un euro e venti al litro. A me servono trecento litri quotidiani… Fai il calcolo… Ne sono successe di cose, per carità, a cominciare dalla guerra, povera gente… Però credo ci sia stata una speculazione».
Il novanta per cento delle persone durerebbe due ore al massimo
Una buona pesca non è scontata
Anche in questa colta Leuca (eventi letterari, scaffali di libri negli hotel), come in ogni località vacanziera i prezzi hanno registrato aumenti. Tacendo degli stabilimenti balneari, protetti dalla possibilità d’avere le concessioni quasi gratis di generazione in generazione, e capaci di chiedere 4 euro per un parcheggio di mezz’ora dopo il tramonto su un pezzo di prato sabbioso, i ristoranti ormai stampano scontrini osceni. E a catena, bisogna sopravvivere. «La mia è pesca a strascico, calando le reti sui fondali. Cerco di privilegiare i gamberoni: garantiscono maggiori guadagni». La pesca a strascico è condannata dagli ambientalisti con l’accusa di devastare ecosistemi, operando una caccia indiscriminata; una pratica barbarica che andrebbe abolita. Ottavio allarga le braccia.
Girando in paese, s’ode la storia d’un tizio che usufruisce del reddito di cittadinanza, collegato alla proprietà di un baretto modaiolo che spara 10 euro per un aperitivo con quattro olive. Il che esaspera la mestizia verso il generale andazzo. Alla pari del popolo in bikini e infradito che vaga nelle commoventi chiese spingendo passeggini – i bimbi guardano i cartoni sui cellulari – e si esibisce vanesio nel modernissimo porto delle imbarcazioni private, confinante con quello dei pescatori. E laddove nel primo un puntuale sistema di pozzetti permette di lavare per ore gli scafi, nel secondo quei pozzetti non funzionano. «Hanno chiuso l’acqua ripetendo che la sprecavamo».
Il peschereccio di Ottavio è lungo 17 metri e porta il nome della figlia Federica; sopra l’imbarcazione già trafficano il cugino Corrado, 52 anni, e il terzo membro dell’equipaggio, Michele D’Amico, 62 anni. Controllano l’albero-motore, l’esterno, gli argani.
Ottavio manovra ed esce dal porto. Le nuvole paiono profili di montagne. «Non esiste una zona precisa dove calare le reti. Contano l’esperienza, l’intuito. Io me la gioco anche dove i colleghi non vanno».
Superiamo uno yacht monumentale, fermo; camerieri in livrea ordinano sedie e tavoli. Ottavio cala le reti. L’operazione dura mezz’ora: quando le reti raggiungono i fondali, anche a cinquecento metri, il peschereccio prosegue a oltranza la sua rotta. In un ambiente infido: l’incrocio delle correnti adriatica e ionica. Un incrocio generatore di scontri. O forse no.
La poetessa Denata Ndreca dice che questo è il tratto del fluire. È di origini albanesi. E albanese era Aptim. «Avevamo fatto un’ottima pesca ma decidemmo un’altra calata. Sentimmo urlare. “Help, aiuto!”. C’era un uomo in mare. E non è che guido una macchina, non posso sterzare a piacimento, avendo sotto le reti... Riuscimmo a recuperarlo. Aveva mani e piedi rosicchiati dai pesci. Dei galleggianti artigianali. Un coltellino. Una pinna costruita con filo elettrico. Aveva lasciato l’Albania su un vecchio motoscafo, con fratelli e cugini. Il motoscafo s’era scassato. Lui, in quanto più anziano, pur avendo vent’anni, s’era avventurato in cerca di soccorsi.
Scoprimmo dalla Capitaneria che un elicottero aveva visto il motoscafo ed erano scattati i soccorsi. Aptim stava in mare da due giorni… Un ragazzo dai modi educati, elegante nella postura. Parlava l’inglese, che noi ignoravamo… No, non l’ho più cercato… Sarà diventato un intellettuale, ne aveva l’aria, mentre io non sono altro che un pescatore».