la Repubblica, 6 settembre 2022
Intervista a Borja Valero
Un memorabile temporale ha appena strizzato tutta la luce della città, e un ragazzaccio sfreccia su una Vespa bianca dal campo d’allenamento a casa. Incontriamo Borja Valero, centrocampista del Centro Sociale Lebowski, campionato di Promozione toscana, nella sua villa tra gli ulivi in collina. Sullo sfondo, un grosso cane bianco e una figlia gentile. Il ragazzaccio indossa un paio di pantaloncini blu con il numero 8. Oggi esce per Rizzoli la sua biografa, Un altro calcio,scritta con il giornalista Benedetto Ferrara.
Borja, eravamo rimasti a lei che si ritirava dalla Fiorentina e sceglieva di giocare con i dilettanti. E poi?
«Mi sembra di essere tornato bambino, quando tutto era davvero libero. Il piacere di giocare resta intatto: cerchiamo sempre il primo amore. Pallone e impegno sociale: ora si pensa a un nostro stadio alleCascine, il grande parco fiorentino con l’ippodromo abbandonato, alla palestra popolare gratuita, alla scuola calcio per i bambini che non potrebbero pagarne una. Ormai abbiamo 1656 soci».
Il suo libro si chiama “Un altro calcio”. Come mai?
«Mi piaceva raccontare che si può riuscire nella vita anche senza avere niente di speciale, anche senza essere fenomeni: io non lo sono mai stato. E volevo dire che quello che ti succede da piccolo ti fa diventare quello che sei. Il calcio è la mia infanzia, il luogo dove ho sempre amato tornare. Rileggendo le bozze ho pianto, è stato come andare dallo psicanalista, del resto ormai io piango anche quando guardo i cartoni Disney. Forse questo libro è un omaggio a mia madre».
Lei è stato un bambino di periferia, e sembra quasi che nonostante il successo non si sia mai mosso da lì.
«C’erano soltanto tre case attorno alla mia, non avevo compagnia e giocavo da solo. Così mi è sempre mancata quella parola in più. Vivere a Firenze mi ha dato una dimensione di vita collettiva, gli scherzi, l’autoironia, diciamo che sono diventato un po’ come loro. Ne avevo bisogno, e per questo sono rimasto».
Cosa significa non essere un fenomeno?
«Ero un po’ lento, non tanto alto, senza un tiro fulminante, eppure ho giocato per quindici anni a buon livello fra Champions League e i principali campionati d’Europa. Holavorato sui limiti e sulle qualità. Mi allenavo a pensare svelto, a guardare prima degli altri lo sviluppo dell’azione. Diciamo che ho adattato la genetica alla realtà».
Ci sono pagine molto belle in cui lei racconta la gioia dell’ultimo passaggio.
«Molto meglio di un gol, anche se all’inizio io ne segnavo tanti. Ma il piacere dell’imbucata nello spazio che vedi soltanto tu, è unico. Ed è bellissima l’allegria negli occhi del compagno che ha segnato. Il passaggio è artistico e romantico: da genitori dovremmo insegnarlo ainostri figli, invece di volerli crescere nell’ossessione dell’individualismo. E bisognerebbe dire loro che i fallimenti fanno crescere, invece stiamo allevando ragazzini fragili, incapaci di reagire alle difficoltà.
Anche nel calcio è così. Tutto deve apparire comodo, poi magari si va a sbattere contro il muretto più basso».
Nel libro ci sono anche le ombre e la morte.
«Quella di mia madre, arrivata troppo presto, quella di Davide Astori, amico e persona indimenticabile, e quella di Ciro Esposito, il tifoso colpito prima di Fiorentina-Napoli di Coppa Italia nel 2014, una partita che non si sarebbe dovuta giocare e invece ci obbligarono a farlo».
Borja, secondo lei dove nasce il talento?
«Dalla strada e dal bisogno, ma anche dalla libertà e dalla fantasia. La mia è stata probabilmente l’ultima generazione cresciuta tra le vie e i campetti spelacchiati, eravamo piccoli giocatori allo stato brado».
Che fate al Lebowski per divertirvi, oltre a giocare a pallone?
«Oh, molte cose. La sagra del pesce fritto a Pozzolatico, il recupero di un giardino, oppure i corsi di danza. Che magari un bambino non è tanto bravo col pallone, ma a ballare invece sì. E allora trova fiducia e cresce contento».