la Repubblica, 6 settembre 2022
Intervista a Giuliano Amato
«Con le recenti modifiche costituzionali per la prima volta è entrato nella Carta il tema del cambiamento climatico. Siamo dinanzi alla sfida più difficile che l’umanità abbia mai dovuto affrontare nella lunga storia di questo pianeta: la sopravvivenza della specie. E la Costituzione non poteva non tenerne conto». Il Presidente della Consulta, Giuliano Amato, interviene nella campagna promossa daRepubblica con l’appello degli scienziati alla politica. E in questa intervista spiega perché le modifiche costituzionali siano importanti ma da sole non bastino. E in che modo la democrazia debba affrontare l’emergenza ambientale senza cedere alla tentazione centralista o, peggio, autoritaria.
Presidente Amato, partiamo dalla modifica dell’articolo 9 della Costituzione. Per la prima volta viene enunciata la tutela dell’“ambiente”, degli “ecosistemi” e della “biodiversità”. Tre parole che nella Carta finora non erano apparse.
«In realtà, anche se la parola ambiente non compariva, la sua salvaguardia veniva sottintesa nella “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione”, come recita il secondo comma di quell’articolo e come la Corte più volte ha affermato. Ma questa identificazione tra ambiente epaesaggio aveva una conseguenza precisa. Oggetto della tutela costituzionale era soprattutto il bello, l’equilibrio perfetto tra la natura e l’opera dell’uomo, quindi un’accezione di ambiente molto diversa da come oggi lo intendiamo: l’atmosfera in cui la vita è possibile, un insieme di equilibri da cui dipende la nostra salute e la stessa sopravvivenza della specie. È l’ambiente in questaaccezione che per la prima volta è entrato nella Costituzione accanto alla tutela del paesaggio».
C’è chi teme che la salvaguardia paesaggistica possa essere subordinata al nuovo “interesse tiranno” che impone impianti industriali nel ramo delle energie rinnovabile.
Un nuovo conflitto tra il “bello”e “sostenibile”.
«Il conflitto ci sarà, inesorabilmente. Io l’ho già vissuto interiormente alla vista delle pale eoliche accanto ai cipressi sulle colline toscane. Ma se le pale eoliche mi servono per rendere l’aria respirabile, sono autorizzato a storcere il naso? O devo cercare un bilanciamento?».
Considerata l’emergenza in cui siamo già precipitati – lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature marine fuori controllo, la siccità, il caldo insopportabile – questa tutela costituzionale non rischia di essere tardiva?
«No, non direi. Io mi domanderei piuttosto se basta riformare gli articoli della Costituzione perché le regole vengano rispettate. Il grande tema oggi è quello dell’osservanza delle norme, dellacompliance. Chi può assicurarla?».
Che risposta si dà?
«Le nuove modifiche costituzionali possono esercitare un’influenza sulle imprese. Le modifiche all’articolo 41 – quello che garantisce la libera iniziativa economica ma a condizioni che non rechi danno alle persone – estendono i limiti dell’impresa al rispetto dell’ambiente e della salute, oltre a quello della sicurezza, della libertà e della dignità umana. A questo proposito esiste già in Europa un sistema di regole che vale per le imprese e il mercato finanziario, contrassegnato dalla sigla ESG (Environmental Sustainability & Governance ): difficile oggi sfuggire a queste norme senza un grave danno per la propria reputazione. Sulle imprese, quindi, la Carta può essere un utile scudo».
Quando nascono i problemi?
«Il problema si pone quando laquestione del rispetto delle regole coinvolge gli Stati nazionali. Beni che sono stati definiti patrimoni dell’umanità ricadono sotto la sovranità di singoli Stati: qui nasce un conflitto difficilmente risolvibile tra il fine universale di quel bene e la sua appartenenza a una nazione. Il Congo ha foreste che sono patrimonio dell’umanità, ma pochi mesi fa ha messo a gara una trentina di concessioni di ricerca di idrocarburi. È necessaria una cooperazione fortemente garantita tra gli Stati perché tutti rispettino le stesse regole».
La coscienza ambientalista è un antidoto al nazionalismo?
«Necessariamente lo è: tutto ciò che riguarda l’ambiente cancella il sovranismo. Ovunque viviamo, abbiamo tutti lo stesso destino: se continuano a usare il carbone di là, si inquina l’aria di qua. Non esistono più confini».
Nei suoi interventi più recenti il tema ambientale incrocia quello della tenuta democratica e dei regimi autoritari.
L’abbiamo visto sotto la pandemia: nei paesi illiberali il Covid è stato un pretesto per aumentare la repressione.
L’emergenza climatica, nelle democrazie fragili, può favorire un inasprimento autoritario?
«Qui veniamo a un altro aspetto dell’osservanza delle regole che mi preoccupa molto. Nella testa di molti c’è l’idea che le regole possano essere rispettate da tutti solo in paesi provvisti di un apparato repressivo, ad esempio in Cina e in Russia. O le imponi con la forza o ognuno farà come gli pare. Io invece sono convinto che la democrazia possa kantianamente fare osservare leregole “per convinzione, non per costrizione”. Ma soltanto a condizione di riuscire a mettere in campo tutte le sue risorse».
Nell’appello pubblicato da Repubblica, gli scienziati chiedono ai diversi schieramenti politici di mettere l’emergenza ambientale in cima alle agende.
Ma questa classe politica è adeguata al compito? Al recente meeting di CL a Rimini lei ha espresso un giudizio molto severo su una politica che non è più capace di guidare, ma soggiace agli umori delle masse.
«Io non ho espresso giudizi, ma mi sono limitato a un’analisi storica.
Oggi le democrazie sono fragili perché non hanno più quei grandi persuasori di massa che erano i partiti politici, i quali sapevano raccogliere le diverse istanze di milioni di individui in una visione condivisa sul bene comune. Oggi la politica non è più in grado di fare questo, non ha più un ruolo di guida e di convincimento ma appare subalterna ai malumori delle persone. Non è un caso che una donna del profilo di Liliana Segre si sia rivolta a un’influencer per convincere gli italiani che la Shoah è parte essenziale del nostro sistema di valori. Un segno drammatico dei tempi, che evidenzia ciò che manca più di ciò che c’è».
Ma se la politica non è l’altezza della sfida ambientale, non essendo più capace di convincere le persone della necessità di determinate regole, come se ne esce?
«Mi sono posto il problema in chiave gramsciana: come si fa in una società come la nostra a costruire una cultura egemone?
Occorrono nuovi diffusori. E nuovi meccanismi di diffusione.
Un ruolo fondamentale è esercitato dalla scienza. La pandemia l’ha dimostrato. Ma ci ha anche dimostrato che un’eccessiva esposizione mediatica può ridurne l’autorevolezza. Noi abbiamo bisogno di scienziati che non perdano la loro credibilità proprio perché sono loro che devono dare fondamento alle regole che cambieranno il nostro modo di vivere. E poi spetterà alle istituzioni politiche decidere ciò che può essere fatto».
Altri diffusori, capaci di realizzare questa cultura egemone?
«Un tempo i partiti raccoglievano quattro milioni di iscritti. Oggi quattro milioni sono gli uomini e le donne impegnati nel volontariato, persone abituate a cercare insieme alle altre il bene comune. Una nuova cultura egemone può essere costruita con loro, sfruttando tutte le autonomie partecipative di cui dispone lo Stato. Non so che cosa ne penserebbe Gramsci, ma ciascuno lavora con quello che ha».
Probabilmente lo stesso Gramsci acconsentirebbe.
«Diciamo non avrebbe molte alternative. In situazioni di difficoltà si può essere tentati dal centralismo, ossia da una pratica che concentra il potere nelle mani di pochi, ma sarebbe un grave errore: gli enti locali e regionali sono essenziali per raggiungere i cittadini. Abbiamo tutti una grande missione: sopravvivere nelle migliori condizioni possibili. E le democrazie possono vincere sui regimi autoritari proprio mettendo in campo tutte le autonomie di cui dispongono. Si tratta di fare una cosa che finora non abbiamo fatto a sufficienza».
A Rimini lei si è rivolto ai ventenni di oggi come “garanti della Costituzione”. Nel suo tono civile commosso c’era come una presa d’atto – specie sul tema dell’ambiente – del fallimento delle generazioni precedenti.
«Sì, in un certo senso è così. Se c’è un argomento che dimostra una decrescente capacità di previsione delle classi politiche è questo dell’emergenza climatica.
Da un paio di decenni i politologi lamentano il “presentismo”, la patologia d’una politica incapace di costruire il futuro. Il cambiamento climatico ne è una drammatica conferma».
La preoccupazione per la tenuta delle democrazie attraversa tutti i suoi interventi pubblici più recenti. Siamo alla vigilia di elezioni politiche importanti. Qual è il suo stato d’animo?
«Le elezioni cadono nel periodo storico che ho appena descritto.
In questa cornice segnata da fragilità, dopo un periodo in cui ci siamo affidati alla politica dell’unità nazionale, quindi non di parte, ci avviamo al governo dello schieramento che risulterà vincente e che sarà più politico del precedente. È un ritorno a ciò che è fisiologico in una democrazia parlamentare. Ciò che auspico – lo dico da comune cittadino – è che non venga perduta la necessaria obiettività rispetto a principi democratici e regole inderogabili che non hanno colore politico».