la Repubblica, 6 settembre 2022
La fine di Roma
È difficile stabilire quando abbiano inizio le epoche, ma «tutti sono perfettamente sicuri di quando finiscono». O così almeno sosteneva Hemingway. La verità è che le fini e gli inizi si intrecciano, si confondono. Tra un tramonto e un’aurora passa solo una notte, che è un confine slabbrato, evanescente, impalpabile. D’altra parte, «le date che indicano i grandi passaggi della storia umana sono sempre convenzionali», scrive Corrado Augias nelle prime pagine di La fine di Roma (Einaudi): rilevando una oggettiva difficoltà nel definire con esattezza i fattori che determinano l’avvio di una stagione sociale, politica, culturale e quelli che, viceversa, provocano «il declino e la scomparsa di riti, simboli, credenze, costumi» sui quali milioni di individui basano la loro esistenza.
Più che in una data o in un evento circoscritto, il «senso di una fine» può essere indagato nei luoghi. E questo fa Augias, da esperto viaggiatore, mi verrebbe da dire, nello spaziotempo: i suoi fortunati libri sui misteri delle grandi città implicano sempre diversi sopralluoghi e una dialettica affascinante tra il visibile e l’invisibile. Fonti tangibili, tracce fisiche, vestigia da un lato; e dall’altro segmenti di un mondo obliterato, appena deducibili, talvolta solo immaginabili. Anche in questo nuovo racconto-saggio, l’itinerario tra visibile e invisibile che va componendosi è suggestivo: penso, tra i tanti esempi, all’indicazione di un piccolo edificio semisconosciuto sull’Appia Pignatelli, «un tempio/chiesina oggi intitolata a sant’Urbano». Dedicato ad Annia Regilla (125-160), moglie di Erode Attico, nel VI secolo è trasformato in chiesa cristiana: «Ciò che più m’ha colpito – confessa Augias – è stata la tamponatura che ingloba le antiche colonne facendo del pronao uno spazio chiuso. Era un’operazione di consolidamentoresa necessaria dallo stato dell’edificio e ordinata nel Seicento dal cardinale Francesco Barberini. Guardandola con distacco si può vederla come una metafora: una specie di abbraccio, il nuovo che ingloba, stringe il vecchio, lo sorregge, lo chiude – e lo soffoca».
Per cogliere il cuore “romanzesco” di questo abbraccio soffocante tra romanità e cristianità, Augias si sposta, verifica con gli occhi, ricostruisce, confronta e narra: con lo spirito di una precisa stirpe di artisti della divulgazione storica (e una postura e un “mood” più britannici che italiani). E prova a rispondere a una domanda radicale su cui, a proposito di inglesi, si scornò, in pieno diciottesimo secolo, Edward Gibbon: se sia stato l’avvento del cristianesimo una delle cause più rilevanti del declino e della caduta dell’Impero romano. O se in qualche modoproprio al cristianesimo sia riuscita l’impresa, quasi involontaria, di salvare la romanità.
Di sicuro, decisiva è la presenza a Roma di quel Saulo di Tarso che, da anti-cristiano, diventa – per stare a una suggestione offerta da Amos Oz – l’inventore del cristianesimo. Non a caso Augias sceglie per la copertina del libro il volto severo e stupefatto dell’apostolo Paolo marmoreo che troneggia in piazza San Pietro. «Paolo – scrive Augias – s’impadronì della figura di un profeta di cui si vociferava che fosse risorto, per trasformarla in quella del fondatore di una nuova religione», araldo di una rivoluzione che si carica sulle spalle in modo energico e perfino aggressivo. Non è forse rappresentato, ancora nell’immagine proposta in copertina, armato di spada? Le rivoluzioni, ricorda l’autore, ignorano le buone maniere. E questa è anche unastoria di violenza, di violenz e, di scontri non solo intellettuali: una dottrina fondata sull’amore, osteggiata con durezza fino alla persecuzione dei suoi adepti («odiati dal volgo in quanto considerati portatori di una funesta superstizione»), sopravvive tenacemente anche facendosi prescrittiva, eticamente rigida, a sua volta – nell’arco ampio della sua storia – persecutoria. Insofferente nei confronti di una teologia cristiana che «cominciava a imporsi con la forza della legge e la minaccia di eterne pene», l’imperatore Giuliano (331-363), nei suoi venti mesi di governo, fu costretto a muoversi ambiguamente fra patente adesione al culto “nuovo” e latente devozione per le divinità pagane. È il paradosso intorno a cui Gore Vidal costruì nel 1964 il suo romanzo Giuliano, richiamato da Augias per l’intelligenza emotiva con cui lo scrittore americano coglie il romanticismo di un giovane imperatore nostalgico di un vecchio mondo più tollerante. «IlGiuliano di Vidal – conclude Augias – vede i pericoli del cristianesimo, il rischio della sua forza crescente, la minaccia di una religione che si proclama dettata al genere umano per grazia celeste». Com’è che diceva Talleyrand? «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere». Vale anche nel IV secolo dopo Cristo, a Roma.
È di simili paradossi, di contraddizioni maestose e terribili che si nutre il passaggio fra due epoche. Augias esplora quella terra di mezzo con una cospicua bibliografia e il passo del flâneur meravigliato: convinto non tanto che Roma sia eterna, ma inesauribile sì. Sosta davanti a un’iscrizione, a un arco, a un obelisco, «freccia alzata verso il cielo»; attraversa di nuovo una piazza, incrocia un rudere trascurato, percorre un vicolo “segreto”. Contempla ancora una volta un celebre monumento, lo convoca a testimone muto. Lo interroga «con occhi nuovi».