La Stampa, 6 settembre 2022
La trama non basta serve lo stile. La lezione di Baricco
Occorre una premessa. Fra tutti gli scrittori della sua generazione e perfino di quella successiva (nessuna eccezione), Alessandro Baricco, l’autore del bellissimo Novecento, è il meno novecentesco di tutti. Sì, certo, domani farà una lezione su Beppe Fenoglio al Festivaletteratura di Mantova. Ha i suoi autori preferiti, non credo li chiamerebbe “modelli”, le sue letture decisive (Céline, Faulkner). Ha esordito all’inizio degli anni Novanta, quando Moravia e Calvino erano usciti di scena.
Ma da lì (aveva poco più di trent’anni), vedendo il ventesimo secolo morire, dev’essersi subito interrogato su cosa avrebbe significato scrivere nel ventunesimo. O meglio: essere uno scrittore. Avendo chiaro, prima e più di tutti, che «se davvero hai un talento bestiale per la scrittura, di sicuro sei sveglio abbastanza per fare bene un sacco di cose». Forse «neanche l’ha sfiorato l’idea che fare lo scrittore potesse bastare» (Baricco lo dice di Dave Eggers, ma vale per entrambi). Così, i suoi esperimenti televisivi sui libri (mai eguagliati), quelli teatrali e cinematografici, le sue letture pubbliche e le sue lezioni (no, non è un “divulgatore"!), un libro fatto a puntate su un giornale (2006) e un libro pensato per lo smartphone (2021), la scuola di scrittura che ha fondato, tutto questo chiarisce come il suo essere autore di romanzi rappresenti un singolo gesto in una sequenza molto più ampia di gesti. Che ha creato sospetto o diffidenza in parecchi critici e colleghi, incapaci in verità di incasellarlo: bastava voltarsi un istante, e Baricco si era spostato in un’altra casella, o l’aveva appena inventata.
Questo perché la sua coscienza del fare letteratura mentre «la corrente del fiume trascina altrove» (i romanzi – benché in sovrannumero – sono «un genere periferico») è più esatta e più lucida di quella del novanta per cento degli scrittori e scriventi, anche trentenni, anche più giovani: troppo poco duttili, troppo illusi, troppo compiaciuti. Troppo, per l’appunto, inconsapevoli.
C’è da preoccuparsi? No. Fuori dalla cerchia «ristretta» di chi sa narrare «con una perizia speciale» si moltiplica – osserva Baricco nel suo nuovo saggio, breve e densissimo, La Via della Narrazione (Feltrinelli) – il numero di coloro che desiderano esercitarsi e perfezionarsi nello scrivere. Fino a ieri, questo dato mi metteva qualche ansia, soprattutto valutando la sproporzione numerica fra gente che legge e gente che si limita a scrivere. Ma Baricco invita a vederla in un altro modo. Una questione di sapere umano, di gesto che si tramanda: una società che sa scrivere, o comunque intende farlo, intuisce che in quel gesto «dimora una disciplina antica», e affida a esso «il compito possibile di portare brevi esistenze individuali a compimento», saldando quanto è certo nella coscienza a «quanto ancora è pagina in bianco e carta coperta». Tradotto: «Scrivere un racconto come partecipare a una cerimonia del tè». Di massa.
Non sta dicendo che tutti possono essere o diventare scrittori. Sta dicendo che per tutti può avere senso imparare a scrivere. La Via della Narrazione che dà il titolo al breve saggio è larga abbastanza da accogliere folle, e tuttavia Baricco non rinuncia, opportunamente, a chiarire che esistono percorsi e “livelli” diversi. E, a proposito di incasellamenti, mi pare voglia sottilmente ribellarsi alla vulgata che gli attribuisce la paternità italiana di un arido “storytelling”, o di una mistica delle storie in quanto trame. No: le storie sono le storie, dice qui Baricco, sono campi magnetici, e sono illimitate. Le trame (e i personaggi) sono “espedienti”. Attenzione ad alimentarne eccessivamente il culto!
Così, si mette a smontare una bibbia dello storytelling americano (Vogler, Il viaggio dell’eroe): «L’idea che una storia sia riportabile integralmente al lineare sviluppo di un personaggio è ingenua e riduttiva». E quanto al “viaggio dell’eroe” come archetipo, chi l’ha detto che si tratta di un immarcescibile prodotto dell’inconscio collettivo? È, invece, il marchio di fabbrica di un pensiero dominante, di una precisa civiltà produttiva, che dall’Iliade arriva a Hollywood, e di un’idea militare, guerresca dell’esistenza («chi ha bisogno di un nemico per esistere sta seminando distruzione»). Possiamo liberarcene? Sì. Possiamo, dobbiamo «rigenerare quote di libertà, rimuovendo blocchi e paure. Per questo insegnare pigramente il viaggio dell’eroe – continua Baricco – non è solo sciocco, ma controproducente. Ogni volta che lo facciamo tramandiamo una forma di dominio».
Bisognerebbe usare questo libello come un samizdat. A maggior ragione per le pagine dedicate all’importanza dello stile. Velata polemica con autori e editori ossessionati dal plot? Avrei voluto abbracciare Baricco quando ho letto la seguente frase: «Adesso è importante ricordarsi che saper costruire un tavolo è solo una parte circoscritta del gesto che chiamiamo abitare». Al posto di tavolo leggasi trama. Come a dire: sì, d’accordo, va bene costruire tavoli, ma la letteratura è fatta anche d’altro. E bisognerebbe evitare che un romanzo produca quello stesso «smarrimento ambiguo che si prova passando tra le stanze vuote allestite in un mobilificio».
Coraggio, scrittori “di professione”, l’abilità nel fare tavoli l’avete dimostrata, la state dimostrando ampiamente. Ora dimostrateci che c’è qualcos’altro. E che non bastano nemmeno i personaggi: sono la facciata di una storia, dice Baricco, non il suo cuore. Dimostrateci di avere uno stile! Storie e trame senza stile – lo dice chiaro e tondo – si chiamano intrattenimento. «Lo stile è di pochi. Sgorga da un’intimità altissima e misteriosa con un particolare materiale. Non si può insegnare, lo si possiede. È un evento. Accade quando il linguaggio, qualsiasi linguaggio, cessa di essere uno strumento esterno e diventa prolungamento di un corpo».
Per concludere: si può educare qualcuno a riconoscere le storie; si può insegnare a costruire una trama. Non si può insegnare lo stile. Perché è un suono unico, è una voce. Il codice genetico è sepolto «in una regione inaccessibile dell’individuo. Il big bang che l’ha generato è puro mistero».—