La Stampa, 6 settembre 2022
Troppo mercato uccide la libertà
Gli uomini migliori di tutte le epoche devono autoindottrinarsi, come osservava George Orwell: devono interiorizzare la consapevolezza che vi sono alcune cose di cui non sta bene parlare. Tale consapevolezza deve essere talmente interiorizzata da diventare un’abitudine come respirare. A cos’altro si dovrebbe credere? Fintantoché le cose vanno in questo modo il sistema funziona bene, senza nessuna crisi.
Questo quadro coglie, a mio avviso, i tratti essenziali del controllo del pensiero nelle società libere, ma è incompleto sotto diversi aspetti. Innanzitutto, dimentica le incessanti lotte popolari per allargare i confini della democrazia, molte delle quali hanno avuto successo. Finanche nell’ultima generazione, sono state messe a segno vittorie di tutto riguardo. Tali traguardi solitamente scatenano una reazione. Coloro che detengono potere e privilegio non vi rinunciano facilmente. Il periodo neoliberista che stiamo vivendo, e che ha avuto una lunga preparazione, costituisce una reazione di questo tipo.
Il quadro è incompleto anche perché tra le élite esistono alcune importanti eccezioni a questa tendenza dominante. Durante i lavori dell’Assemblea costituente Benjamin Franklin, il più rispettato tra i delegati presenti, si oppose a ciò che stava andando in scena. Egli espresse il proprio «disprezzo per tutto ciò che tende a degradare lo spirito del popolo» e fece presente ai suoi colleghi: «Alcuni dei più grossi furfanti che io abbia mai conosciuto erano anche i più ricchi». Un pensiero in cui riecheggiano le riflessioni di Adam Smith. (...)
Anche il ventesimo secolo vide importanti eccezioni all’interno del pensiero delle classi privilegiate. La più autorevole fu quella rappresentata da John Dewey, il più stimato filosofo sociale americano del ventesimo secolo. Egli dedicò gran parte della sua opera – e anche della sua attività – alla democrazia e all’istruzione, seguendo principi del tutto contrapposti alle dottrine della «fabbrica del consenso» e della marginalizzazione del «gregge smarrito».
Per Dewey la democrazia, per essere pienamente compiuta, doveva prevedere l’attiva partecipazione di una cittadinanza informata. La sua teoria democratica era strettamente connessa alla sua filosofia pedagogica, che puntava a nutrire la creatività e l’indipendenza di pensiero proprio per favorire la partecipazione alla società democratica. E funzionava. Sono stato abbastanza fortunato da frequentare una scuola deweyana dai due ai dodici anni, e per me è stata un’esperienza straordinaria. (...)
Poco dopo la guerra, Dewey rivide le sue posizioni e divenne un critico severo della società e dei mezzi di comunicazione. Nel corso degli anni giunse a considerare la politica come «l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici». In un contesto simile, le riforme avrebbero avuto un’utilità limitata: «L’attenuazione di quell’ombra non ne cambierà la sostanza». La sostanza è che sono le stesse istituzioni del potere privato a minare la democrazia e la libertà. «Il potere ai giorni nostri» scriveva «risiede nel controllo dei mezzi di produzione, nel commercio, nella pubblicità, nei trasporti e nelle comunicazioni», per quanto permanga un simulacro di democrazia. In una società libera e democratica, i lavoratori devono essere «padroni del loro destino industriale», non utensili presi a noleggio dai datori di lavoro. L’industria deve pertanto essere trasformata «da struttura sociale feudale a una democratica», fondata sul controllo della produzione da parte dei lavoratori, proprio come le classi operaie rivendicavano agli albori della Rivoluzione industriale. Fiamme mai estinte e che anzi da allora sono divampate spesso, anche ai nostri giorni. (...)
Dewey stigmatizzava anche la «stampa non libera» perché cedeva al mercantilismo, e ne deplorava «il giudizio su cosa sia una notizia, sulla selezione o l’eliminazione del materiale da pubblicare, sul trattamento delle notizie negli editoriali come negli articoli di cronaca». Egli raccomandava pertanto un «sistema cooperativo» controllato «nell’interesse di tutti» al posto della prassi dei mezzi di comunicazione di «romanticizzare le motivazioni del profitto». (...)
È prassi distinguere tra diritti negativi e diritti positivi. I diritti negativi si riducono in sostanza a: «Non mettetemi i piedi in testa». I diritti positivi tendono al potenziamento del welfare e delle opportunità, ciò che l’economista Amartya Sen chiama «capacità».
L’interpretazione prevalente oggi vuole che il Primo emendamento conferisca diritti negativi ai mezzi di comunicazione: lo Stato non deve interferire nel loro lavoro. Anche questa è un’innovazione relativamente recente, risalente a un importante caso del 1964 in cui fu coinvolto il movimento per i diritti civili (New York Times contro Sullivan). Questa interpretazione costituisce una netta divaricazione dalla visione dei costituenti, i quali intesero il Primo emendamento in maniera più liberale, cioè tale da conferire diritti positivi; un tema analizzato in alcuni interessanti studi da esperti dei mezzi di comunicazione come Robert McChesney (2007) e Victor Pickard (2020). I costituenti volevano che i media fossero liberi, vibranti, indipendenti, di certo distanti da quella «stampa non libera» criticata da Dewey per la sua subordinazione ai proprietari e ai pubblicitari. E anche pluralisti: la stampa dell’epoca, invece, era spesso caustica e polarizzata. Per i costituenti non era solo un impegno formale. Essi credevano realmente che il governo dovesse assumersi direttamente il compito di favorire una stampa autenticamente libera. Il metodo usato, sostanzialmente, fu quello dei sussidi. Il Servizio postale statunitense fu pensato come una forma di sussidio ai mezzi d’informazione indipendenti, in quanto garantiva una distribuzione capillare a tassi bassissimi. Buona parte del traffico postale nei primi anni era costituito dai giornali. (...)
Nel corso degli anni l’interpretazione liberale dei costituenti del Primo emendamento è stata circoscritta fino ad arrivare a quella odierna fondata sul diritto negativo. La questione fu oggetto di grandi controversie per tutto il ventesimo secolo, prima con l’avvento della radio, poi della televisione e infine di Internet. Negli anni Trenta scoppiarono forti contestazioni contro la decisione del governo di consegnare le frequenze radio pubbliche all’iniziativa privata senza grande riguardo per i diritti positivi dei cittadini all’informazione, alla libera discussione e al servi-zio pubblico. (...) La questione tornò alla ribalta a metà anni Novanta, quando l’amministrazione neoliberista di Bill Clinton approvò la Legge sulle telecomunicazioni del 1996, consegnando Internet – di proprietà pubblica e per buona parte creato con risorse pubbliche – alla proprietà privata, ulteriormente deregolamentata e inevitabilmente orientata verso la concentrazione monopolistica, contrariamente alle previsioni dei difensori di quella scelta e di moltissimi economisti e assecondando invece le previsioni dei suoi detrattori. È un tratto costante della vocazione neoliberista alla deregolamentazione e al culto del mercato. —