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 2022  settembre 05 Lunedì calendario

Metti un giorno a pranzo Mike Bongiorno, Carlo Freccero e Aldo Grasso

Nell’ottobre del 2004 mi trovavo a Stresa per un convegno sulla televisione. Tra i relatori c’era anche Mike Bongiorno. È una di quelle occasioni in cui le parole cadono nel vuoto, anche se dici cose non scontate, perché l’uditorio è lì solo per sentire Mike. Lui sa come si intrattiene il pubblico, come strappare l’applauso, come non annoiare. E così fu. Al termine dell’incontro Mike si avvicina a me e a Carlo Freccero (non ancora turbato da astratti furori) e ci invita gentilmente a pranzo: «Ho casa qui vicino ad Arona, in un posto che si chiama Dagnente».
Salgo in macchina convinto che Mike voglia fare il modesto, ospitandoci in una casa da niente, con tutti i soldi che ha guadagnato! Avevo capito male, esiste una frazione di Arona che si chiama Dagnente dove sorge Villa Zuccoli, una villona di proprietà della moglie Daniela: «È la casa di famiglia», dice lei, tutta orgogliosa. Mike mi prende per una spalla, rallenta il passo sull’erta che porta verso casa e mi sussurra all’orecchio: «Ma l’ho messa a posto io».
Come molte persone che hanno patito la fame (era stato in carcere a San Vittore, catturato mentre faceva la staffetta partigiana) Mike si portava dietro una paura notturna, indecifrabile, quella di cadere nella povertà, di dover rinunciare a una vita più che agiata. E dire che Michael Nicholas Salvatore Bongiorno (senza la «u», come ci teneva a precisare) era nato a New York nel 1924. I primi passi li aveva mossi nell’appartamento di un lussuoso palazzo sulla Fifth Avenue. Suo padre Philip era all’epoca un famoso avvocato, «numero uno» tra gli italiani laureati alla prestigiosa università di Princeton. Dopo il divorzio dei suoi (sua madre, Enrica Carello, apparteneva alla buona borghesia torinese, il padre produceva fanali per auto), Mike si era trasferito a Torino, prima in via Marenco e poi in corso Marconi che allora si chiamava corso Valentino. Iscritto all’Istituto Rosmini, aveva frequentato il liceo classico (non era proprio quell’eroe della mediocrità che una certa saggistica si è divertita a dipingere).
Torniamo a Dagnente, è l’ora di pranzo, sono quasi le due. Alla custode della villa, Mike ordina di portare prosciutti, salami, formaggi, vino e non ricordo quale altro bendidio. Si mangiucchia, si discorre, si assaggiano i vini: Mike è un perfetto anfitrione. A un certo punto, l’occhio mi cade su alcune etichette Rovagnati che erano rimaste sul tavolo. Un rapido scambio di sguardi con Freccero e oso: «Ma Mike, questi sono i prodotti che sponsorizzi!». A Mike si illumina il viso: «E certo, vuoi mica che reclamizzi un prodotto senza prima provarlo? Non ho mai sponsorizzato un prodotto senza prima averlo provato, è la condizione che pongo». Ormai il ghiaccio è rotto: «E allora hai anche provato la grappa, i materassi, gli yogurt, i caffè, la carne in scatola». «Tutto», risponde Mike, con il tono giusto del vero testimonial. Mi fermo lì, perché la domanda successiva si strozza in gola dal fou rire. Era questa: «Ci fai visitare la dispensa di Villa Zuccoli?».
Mike non aveva certo bisogno degli sponsor per bandire la sua tavola, ma questo suo lato fanciullesco resta uno degli aspetti più curiosi e sinceri del suo carattere e forse dei meno conosciuti. Quando conduceva la «Ruota della fortuna» su Canale 5, c’erano pullman provenienti da tutt’Italia che riversano negli studi frotte di adoranti spettatori, soprattutto spettatrici. E c’era un rituale che divertiva molto il conduttore. Durante il programma Mike segnalava la provenienza di vari gruppi e poi aggiungeva una frase del tipo «Che specialità mi avete portato dalle vostre terre?». Ogni volta una signora si alzava e gli offriva ora una torta, ora una specialità del luogo, ora un piatto preparato apposta, ora offerte votive. Dove finiva tutta quella roba? Leggenda vuole che ci fosse una sorta di distribuzione: una parte allo studio, una parte nel baule della macchina di Mike. Al cui compito provvedeva il fido autista.
Mike era un candido, non aveva mai secondi fini, riusciva ancora a stupirsi per poco. Dei colleghi più giovani diceva: «Arrivano al successo senza aver fatto la gavetta: già conducono una vita da nababbi, il rischio è di consumarsi in fretta». Nonostante ai lui si debba la prima trasmissione della tv italiana («Arrivi e partenze», 1954), nonostante sia stato il primo testimonial di Carosello per l’Oreal (1957), in quanto al lavoro, nessuno gli ha mai regalato niente (Dagnente?). In ogni programma ha sempre messo impegno e dedizione, uno zelo al limite della maniacalità. Sono stato a casa sua un paio di volte, non di più. E tutte le volte mi ha raccontato due episodi: il primo riguarda Silvio Berlusconi, il secondo la Rai. A distanza di anni, stesse parole, stesse pause, stesse espressioni.
Capitolo Berlusconi. «Un giorno mi telefona un signore che si presenta come Silvio Berlusconi. Era il 1977. Disse che voleva incontrarmi, ma io non avevo la più pallida idea di chi fosse. Chiesi in giro e mi dissero che era un costruttore, che aveva fatto Milano 2. All’inizio pensai addirittura che volesse vendermi un appartamento. Comunque accettai di vederlo e ci incontrammo in un ristorante. Dopo un quarto d’ora mi resi conto che quell’uomo era di una brillantezza incredibile e avrebbe fatto una grande carriera». Alcuni accenni ai primi lavori a Milano 2 quasi clandestini poi il giorno fatidico: «Quando Berlusconi mi disse che dovevo lavorare solo per lui io gli chiesi quale compenso mi avrebbe dato. Calcola che allora in Rai guadagnavo pochino: due milioni a puntata per un massimo di 26 puntate all’anno, non una di più perché sennò dicevano che erano obbligati ad assumermi. Il che voleva dire che ero costretto a non fare più le serate, le comparsate nei film, i fotoromanzi… Insomma, chiesi a Berlusconi quanto mi offrisse e quello fece un paio di conti e poi disse: “Seicento milioni”. E io: “Per quanti anni?”. E lui: “Ma per un anno, benedetto uomo! Per un anno! Con quello che pagano gli sponsor, seicento milioni è una cifra normale!”. Non credevo alle mie orecchie».
Capitolo Rai. «Dopo vent’anni che lavoravo in Rai, dopo aver condotto programmi importanti come “Lascia o raddoppia?”, “Campanile sera”, “La fiera dei sogni”, “Rischiatutto”, “Sanremo” mi regalano una medaglietta di riconoscenza, come quelle che si danno agli anziani del lavoro quando vanno in pensione…una medaglietta! Poi, quando mi ha chiamato Berlusconi hanno cominciato a tempestarmi offrendomi prima cento, poi centocinquanta, poi duecento milioni… e così via. Ero furibondo e indignato. “Ma allora fino a oggi mi avete preso in giro. Allora fino a oggi ve ne siete approfittati!”, urlai al funzionario di turno che non smetteva di rilanciare».
A differenza di alcuni suoi colleghi, Mike ha interpretato il mestiere con scrupolo e pignoleria, attento ai dettagli; nel fare e nel raccontare la tv, ha sempre scelto il punto di vista del «semplice». Per questo, fin dagli inizi della sua carriera, ha continuato a produrre – un po’ per carattere, un po’ per mestiere – gaffe, bizze, goffaggini, battute che hanno garantito un richiamo popolare non meno forte di quello esercitato dai giochi proposti. Anche se la celeberrima battuta rivolta a una concorrente («Ahi, ahi signora Longari, lei mi è caduta sull’uccello!»), non è mai stata pronunciata. Attribuita a lui, però, è diventata più vera del vero, una leggenda metropolitana.
Mike è stato un uomo felice con qualche ferita (l’ultima, il disamore da parte di Mediaset): basta ricordare l’entusiasmo con cui ogni giorno partecipava alle ospitate tv, ai programmi di Fiorello, che gli ha regalato non una seconda ma un’eterna giovinezza. Un ultimo episodio: quando a Mediaset per entrare misero i tornelli, visse il tesserino magnetico come un’onta. Se quell’impresa era così grande il merito era anche un po’ suo. Da vecchio bambino pensava che le porte dovessero spalancarsi al suo passaggio.