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 2022  settembre 05 Lunedì calendario

Intervista a Emanuele Crialese

Che importanza ha che sia stato una donna? Quello che conta è ciò che faccio oggi. Sono un uomo e una donna come gli altri? No: sono io. Ho fatto cinema nella speranza di raccontare un giorno questa storia». Emanuele Crialese torna in gara al Lido con L’immensità (esce il 15 per Warner). La sua musa si chiama Penélope Cruz.
Il regista è nato Emanuela: è diventato Emanuele. Nell’ambiente un po’ si sapeva, lui la racconta oggi, questa storia che non potrebbe essere più intima e personale: quella di una bambina che si sente maschio.
È la sua storia. «Mi riguarda molto da vicino. Ma non è un film sulla transizione e sul coming out, sarebbe disinformazione. Io poi sono sempre stato out. È un film fortemente autobiografico».
Roma, Anni ’70, un marito traditore seriale che picchia la moglie, lei lo subisce; della figlia maggiore dice: si chiama Adri.
Crialese, perché ora?
«È il film che inseguo da sempre, il più desiderato; è sempre stato “il mio prossimo progetto”, un’esplorazione, un viaggio nella memoria. Ora sono pronto. Se l’avessi fatto prima sarebbe stato palloso e didascalico, un poveraccio che usa la crisi di genere. Ho aspettato per avere consapevolezza di me e del linguaggio del cinema. Si racconta una storia quando si è capaci di esprimersi. Una rinascita. Ecco, ero pronto a rinascere».
È stato molto coraggioso.
«Io sono quello che sono, perché devo rassicurare? C’è bisogno che dica io sono maschio o femmina? Sono quello che lei ha davanti, non basta? Sono e non sono, essere o non essere… Spero di non minacciare nessuno. Sono figlio del mio tempo, ora per fortuna i tempi sono cambiati, i bambini in questo sono grandi maestri, sanno usare le nuove parole, penso a gender fluid, e ci dicono che maschio e femmina sono categorie. Noi siamo quelli che siamo, esseri umani prima che definiti sessualmente. Ma bisogna sostenere le famiglie e non lasciarle sole come è stata mia madre all’epoca. Voglio dire una cosa politica, questo Paese sta cambiando, siamo impauriti, tutto si può fare tranne avere coraggio».
Si apre una nuova fase?
La scelta
«Per cambiare la “a” di Emanuela con la “e”
ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo»
«Sono di natura un po’ schivo, non sono un presenzialista, mi piace fare il mio lavoro, non sono una rockstar che dice: alle ore 18 vi farò una comunicazione pazzesca sulla mia vita. Io spero che si parli di libertà senza paura, della libertà come conquista, che ti dà coraggio».
La sua parte femminile dov’è andata?
«È qui con me, è la mia parte migliore, è l’oggetto dei miei desideri, è lei che ascolto più volentieri. La donna è un mistero e un campo di battaglia, dà la vita, allatta, rinuncia, si sacrifica, ha lottato per emanciparsi. Descrivere un uomo sarebbe noioso».
Sua madre?
«Si nascondeva insieme a me, abbiamo vissuto l’immensità. Non sapeva dove sbattere la testa. I tempi sono cambiati. La mentalità è la stessa. Il personaggio del padre (Vincenzo Amato) non è mai cresciuto, è rimasto un bambino, la madre l’ha autorizzato a comportarsi in quel modo con le donne».
Lei sul passaporto…
«Per cambiare la a con la e, ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo, il pegno che mi ha chiesto la società, senno’ non avrei potuto cambiare nei documenti. Non c’è film che non sia autobiografico. Si raccontano le proprie ossessioni e passioni. Da Terraferma a Nuovomondo, faccio film sulle migrazioni, sulle transizioni anche da un luogo all’altro. C’è trasfigurazione, non giro documentari, è la mia esperienza di vita. Il cuore del film è la libertà, come si possa cambiare, come l’identità sia un fatto relazionale».
La casa è il ricettacolo delle ferite familiari.
Se l’avessi girato prima sarebbe stato didascalico, un pove-raccio che usa la crisi di genere Ho atteso per avere
una piena consape-
volezza
«È una sorta di navicella spaziale, non ha nulla di realistico, è il corpo, dentro c’è il cuore e il cuore è malato. I bambini ci portano oltre i nostri confini e i tre figli esprimono il disagio attraverso il corpo, mangiano troppo o non mangiano».
Il suo alter ego è Luana Giuliani, al suo primo film.
«Ha 13 anni, sarebbe stato un errore cercare chi vive quel disagio, ho pensato a una adolescente che praticasse una disciplina sportiva maschile, Luciana è una campionessa di mini motociclette. Compete, unica donna, con i maschi. Lì non si fanno differenze di genere, ci vuole grinta e coraggio».
Penélope Cruz si sovrappone nelle immagini a Patty Pravo e Raffaella Carrà, due icone del mondo gay.
«Raffaella è un mito per Penelope, che però non ha mai conosciuto ma in Spagna ballava le sue canzoni al parco per le amiche della nonna. Volevamo invitarla sul set, è morta qualche ora prima. Patty Pravo la vidi a Roma che usciva da una Rolls Royce bianca con degli occhi che mi facevano paura, lei è uno stordimento, un vortice».
Madre e figlia nel film...
«Hanno una connessione forte, la casa è una specie di carcere, la figlia dice: vengo da un’altra galassia».
Emanuele, ha parlato con la sua famiglia d’origine?
Bisogna sostenere le famiglie, non lasciar-le sole, e dico una cosa politi-ca: questo Paese sta cambiando, c’è paura, tutto si può fare tranne che avere coraggio
«Se fosse il mio debutto le reazioni sarebbero state scomposte. Non c’è stato il panico, ma curiosità e preoccupazione rispetto alla verosimiglianza dei personaggi».
Cosa vorrebbe che arrivasse di questa storia?
«Che ho fatto un film, affrontando una grande prova di coraggio. Mi sono esposto, non dal punto di vista sessuale ma nella mia privacy, nella mia dimensione umana».