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 2022  settembre 05 Lunedì calendario

Intervista a Bernardo Zannoni

Bernardo Zannoni, 27 anni, vincitore con il suo romanzo d’esordio del Premio Campiello, ha portato sul palco del teatro La Fenice un’energia nuova, un vento giovane. Merito a Sellerio, il suo editore, per averci creduto. Il romanzo I miei stupidi intenti,protagonista una faina dotata di parola, si è lasciato alle spalle con un grosso distacco gli altri finalisti: Antonio Pascale, Elena Stancanelli, Fabio Bacà, Daniela Ranieri. Questo ragazzo dalla chioma ribelle che l’altra sera, grazie al tocco eccentrico dei calzini rossi sembrava un direttore d’orchestra e si diceva «agghiacciato dall’emozione», è ufficialmente uno scrittore. Parliamo al telefono mentre è in treno verso Sarzana, la sua città, dove lo aspettano per festeggiare familiari e amici.
Ieri sembrava frastornato, oggi va meglio?
«È stato un fulmine a ciel sereno, mi tremavano le mani. Un lampo, gioia e sconcerto. Non saprei descrivere quello che provo, mi pare di osservare tutto da dietro uno specchio, da lontano. Forse è una difesa per rimanere integro».
Ci parli del suo percorso prima del Premio.
«Ho iniziato a scrivere questo libro a 21 anni, poi ho interrotto per girare un documentario sull’artista Paolo Emilio Gironda e l’ho ripreso a 24.
Nel frattempo ho composto canzoni, costretto i miei amici a girare corti, suonato con l’armonica a bocca come Bob Dylan, fatto lavoretti vari.
La sera per arrotondare a volte facevo il cameriere, a volte aiutavo mio padre a pulire le barche o portavo a zonzo i turisti».
Suo padre, Alessandro Zannoni, è uno scrittore di gialli, come ha commentato la vittoria?
«Un po’ mi manda a…., un po’ è contento (ride,ndr )».
E sua madre?
«Felice, lei è un’artista, disegna lampadari d’interno».
Provi a raccontarsi in poche parole.
«Sempre stato ritroso alle regole.
Sono uno che ha bisogno dei suoi tempi. Da bambino ero un ciclone e da ragazzo andavo per la mia strada, dopo le superiori ho frequentato per breve tempo la Scuola Holden, solo un passaggio, troppe assenze. Al liceo classico ho avuto un rapporto conflittuale col mio professore di italiano. Era molto in gamba, un luminare, ma voleva che leggessi alcuni classici mentre io preferivo Kerouac e Bukowski. Per smontarmi i miei miti quando mi vedeva diceva “beva meno!” o “ecco è arrivato in itinere"».
Dentro questa insofferenza, quando è entrata la scrittura?
«È dalle elementari che riempio taccuini. Scrivere mi consolava, mi permetteva di dare corpo a quello che mi girava in testa, ai miei sogni.
Ho sempre cercato vie per imprimere me stesso, che fossero poesie, canzoni o racconti. Mai stato isolato però. Ero un capobanda, un casinista pieno di amici».
Perché nel romanzo la faina Archy impara a scrivere ?
«Dopo essere caduta da un albero ed essersi spezzata le gambe, Archy inizia a vedere la sua vita in modo diverso, prende coscienza della sua mortalità. La scrittura è un elemento salvifico nella sfida con la morte. Ma il tempo è vasto, la pietra si sgretola, la carta si sfalda, e noitorneremo al vero ritmo della natura».
Come le è venuta in mente l’idea di una storia con protagonista una faina?
«È un animale poco usato dagli scrittori, potevo tratteggiarlo a mio piacimento, è stato anche un modo per omaggiare un animale sfigato.
Creare un sopra-mondo popolato di animali a 21 anni è una cosa divertente ma andando avanti mi sono ritrovato tra le mani toni cupi. È stato come lanciare un sasso giù per la collina e vedere dove rotolava.
Ancora oggi mi sembra strano che sia riuscito a finire di scrivere il libro. Una mia amica mi chiama “quello che non finisce mai le storie"».
Nel libro affronta temi enormi: la vita, la morte, Dio.
«Mi pareva che queste questioni guardate con gli occhi degli animali apparissero più semplici, più chiare, più potenti».
Dare la parola agli animali è un antico espediente narrativo, si è ispirato a qualche modello?
«All’inizio pensavo di divertirmi scrivendo un racconto tipo Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson ma poi è uscito qualcosa di diverso».
È appassionato di cinema?
«Amo Jarmusch, Wenders, i fratelli Coen, Kubrick. Ma a volte nel trash possono esserci cose interessanti.
Penso aRubber, dove l’avversario è uno pneumatico».
Usa i social?
«Sono figlio di questa dannatissima generazione che trova nei social l ’àpeiron dove sfogarsi ma ho profili social con nomi di finzione che uso solo per tenermi in contatto con la mia cerchia ristretta di amici. Stasera mi aspettano a Sarzana: festeggiamo insieme e ci divertiamo come matti».