La Stampa, 5 settembre 2022
L’infanzia fluida di Crialese
È il film della vita, rimandato per anni, girato quando ha trovato la forza di dire, in una mattina di sole, nel clima concitato della Mostra, che per diventare quello che è oggi, ha rinunciato a una parte di se stesso: «Mi sono confrontato con la paura, quello che proponevo spaventava, dicevo che sarebbe andato tutto bene ma, per far cambiare la “a” del mio nome in una “e” ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo». Nell’ Immensità accolto da 12 minuti di applausi commossi al Lido e dal 15 nei cinema con Warner Bros, Emanuele Crialese racconta la storia, forte e personale, di un cammino doloroso finito con la libertà, un ritratto di famiglia disastrata, dove la sofferenza di una madre (Penelope Cruz) si riflette in quella della figlia maggiore (Luana Giuliani) che si chiama Adriana ma vuol essere chiamata Andrea, che incontra, perdendolo, il primo, giovane amore, che non riesce a spiegarsi come l’unione tra i genitori sia svanita nel buio di un incubo: «Nel film c’è la mia vita, è un film autobiografico, in cui si parla di identità, ma, per me, l’identità è relazionale, si esprime attraverso i rapporti con gli altri. I figli, nel film, si interrogano su se stessi, si chiedono “se siamo figli dell’amore tra i nostri genitori, che cosa siamo ora che quest’amore non c’è più?». Regista di Respiro, Nuovomondo, Terraferma, Crialese rivendica un’omogeneità d’ispirazione, anche se, stavolta, la posta in gioco è molto più alta: «Abbandonare le radici per andare verso l’ignoto è uno dei miei temi preferiti, l’ho sempre affrontato. Stavolta descrivo un altro tipo di migrazione, un’altra transizione, ognuno ha diritto di essere chi vuole, l’importante è saperlo, io, semplicemente, non ho dato per scontato il mio genere».
Per realizzare L’immensità erano necessari consapevolezza della propria maturità, distanza, da quegli Anni 70 in cui si svolge la vicenda, e anche gioia nel mettere in scena passioni, come quella per Raffaella Carrà che, nel film, rivive attraverso le trasformazioni di Clara, la madre di Adriana, perfetta nell’intonare i suoi brani più celebri: «Penelope è una fan sfegatata di Raffaella, volevamo conoscerla, l’abbiamo contattata, poi, un giorno, abbiamo visto arrivare il produttore con una faccia triste, ci ha detto che era appena volata via. Da quel momento l’abbiamo ricordata con desiderio ancora più forte, proprio perché non c’era più». L’altra divina citata è Patty Pravo: «Un giorno l’ho incontrata a Fiumicino, ho avuto l’impressione di vedere una dea, stupenda, ma con occhi che fanno paura. Un vortice, uno stordimento, la trasgressione assoluta». Per Cruz il viaggio nel mondo di Crialese è stato irrinunciabile: «Mi sono innamorata del ruolo, ho voluto fortemente raccontare questa storia, io e Emanuele abbiamo sentito subito una connessione forte, come se ci conoscessimo da tanto, poi è venuto il Covid, è passato del tempo, abbiamo parlato di mille cose, lui sa tanto di me e io di lui, ci lega una grande fiducia reciproca». Le esibizioni canore hanno una ragione precisa: «Nel film Clara balla e canta perché in quel modo tiene aperta una finestra su un’altra realtà, la tv è un modo per evadere dalla sua infelicità e anche per convivere con la figlia, sanno di meritare una vita diversa, vogliono scappare, ma non possono. L’omaggio a Carrà e Patty Pravo non nasce solo dall’ammirazione nei loro confronti, per la madre e la figlia loro sono una specie di terapia». Nella casa che finisce per essere una gabbia, i bambini, aggiunge Crialese, «cercano libertà anche per la madre, prigioniera degli schemi e loro complice».
Raccontare anni fa questa storia avrebbe comportato problemi: «Le reazioni della mia famiglia sarebbero state scomposte, certo anche adesso ci sono state preoccupazioni per come sarebbero stati descritti i personaggi. A 30 anni non sarei riuscito a trovare l’ellissi giusta per un racconto cinematografico, di natura sono schivo, ho affrontato una grossa prova di coraggio, certo, ora mi sento più esposto, nella mia privacy e nella mia dimensione umana, quello che succederà dopo non posso saperlo, lo scopriremo vivendo, come dice la canzone». Per adesso ci sono emozione e sollievo: «Spero che il pubblico, vedendo L’Immensità, si interroghi sulla conquista della libertà, sul mettersi alla prova, con i propri limiti, resistendo al linguaggio diffuso della minaccia e della paura. Una paura che ho conosciuto da quando ero bambino. Oggi non rinnego la mia femminilità, non l’ho mai repressa, la parte migliore del mio essere uomo è nell’essere donna. Non sono un uomo come gli altri, sono altro, e se questo sconvolge qualcuno, mi dispiace, ma è un problema di chi non riesce ad andare oltre le classificazioni». —