La Stampa, 5 settembre 2022
Dino Meneghin ricorda le Olimpiadi di Monaco
Quattro medaglie, due ori scintillanti e due bronzi promettenti in una Monaco che sapeva come esaltare il mondo. L’ultimo giorno delle Olimpiadi come non le avremmo viste mai più è una felicità azzurra fatta di emozioni che si sbriciolano contro il 5 settembre 1972. Oggi, 50 anni fa: quando l’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero invade il Villaggio, occupa la palazzina israeliana, uccide due atleti e rapisce nove persone. È l’alba ed è l’inizio di un massacro che cambia i Giochi.Dino Meneghin ha 22 anni, diventerà il cestista più amato d’Italia e quella mattina lo travolge: «Fino a lì era una meraviglia. Impianti pazzeschi, lo stadio avveniristico e l’atmosfera vibrante. Noi sportivi mescolati ai visitatori, io salutavo i miei genitori alla sbarra di ingresso. Eravamo sereni, coinvolti: concentrati sulle gare però immersi in una festa che ci arrivava vicino e ci esaltava. Fino al 4 settembre non ho visto una sola divisa militare».Come vi è arrivata la notizia del sequestro?«Le notizie si rincorrevano frammentarie, si capiva poco eppure è stato subito evidente che stesse franando tutto. Un pugno nello stomaco. Ce lo hanno detto al rientro da un allenamento, mi pare».Vi hanno fatto spostare?«No. La palazzina dell’Italia era a 300 metri dalla prima strada chiusa, ma non avevamo sentito nulla. Eravamo più sorpresi che impauriti. Ci siamo ammutoliti».Sono iniziate le discussioni: continuare o fermarsi. L’Italia nel basket ha affrontato la domanda in privato?«Sì, ovvio. Guardavamo quella fetta di Villaggio chiuso e ci chiedevamo come reagire. Qualcuno deve aver detto: “Chiunque può entrare qui e fare quello che vuole”. Portavamo i dubbi in faccia, sapevamo poco però è stato giusto andare avanti. L’unica risposta da dare alla violenza è impedirle di fermare la vita».Oggi, con un flusso costante di informazione, si arriverebbe alla stessa scelta?«Non lo so, mi auguro davvero sia una domanda che nessuno si dovrà porre, però credo che la scelta del 1972 fosse sensata e quindi l’unica possibile. Un conto è interrompere o ritardare per il lutto, come è successo dopo i fatti del Bataclan, per esempio, un altro è chiudere e scappare. Andare avanti è il segnale da dare a chi crede di poterti terrorizzare e lo sport ha il potere di portare un messaggio di unità e globalità. Si muove contro i gesti osceni»Perché allora lo sport non ha mai saputo come onorare quei morti. Per anni il Cio, come ogni altra organizzazione, li ha rimossi.«Hanno provato a normalizzare, a tranquillizzare. Si temeva che la macchia indelebile avrebbe condizionato la magia delle Olimpiadi, ma la memoria è fondamentale. Se oggi, dopo 50 anni, ne stiamo parlando vuol dire che il modo di ricordare è stato trovato».Come avete saputo del massacro?«Davanti alla televisione, con il cuore spezzato. Seguivamo come fosse un film, convinti che ci sarebbe stato uno scambio di prigionieri, che il commando sarebbe partito senza altri morti, poi l’epilogo brutale, impossibile da metabolizzare. Il tempo lo ha anestetizzato però resta un concetto ingestibile. Così come il terrorista incappucciato sul balcone, l’immagine di quel 1972 purtroppo. L’ho vista in tv eppure mi è entrata in testa come se l’avessi guardato dal vivo».Il 6 settembre si gioca Usa-Italia e due giorni dopo la partita contro Cuba che valeva il terzo posto. Due sconfitte. Con che spirito avete affrontato quelle sfide?«Non eravamo condizionati. Onestamente non so più dire con che spirito siamo scesi in campo, di sicuro era sparita la bellezza. In quel Villaggio poi c’erano persino i teatri, i locali notturni e di colpo il silenzio. La mattina prima ti sedevi a colazione tra un cinese e un australiano e quella dopo ognuno tra le proprie tute. Per nazioni. Stretti. Una claustrofobia iniziata quando il nostro bus si è spinto contro il muro per lasciare lo spazio tra noi e i convogli con i fedayn in uscita. Un impatto a lungo termine».Quattro anni dopo non avrebbe più potuto salutare i suoi genitori alla sbarra.«Proprio no. A Montreal, nel 1976, era quasi opprimente. Polizia ovunque, metal detector a ogni spostamento minimo. Andavamo a giocare con la scorta con la mitraglietta».E nelle edizioni successive che ha vissuto o visto?«L’era della preoccupazione. A Mosca ’80 mancavano gli Usa; nel 1984, a casa i Paesi sovietici. E sempre più sicurezza ostentata e ansie nascoste. Solo ad Atene 2004, anno in cui ero dirigente, ho rivisto la calma. Non la festa di Monaco, ma il compromesso tra il bisogno di regole e protezione e il fascino di una Olimpiade. Oggi i la tecnologia aiuta a gestire i controlli in modo meno invadente, ma quella libertà è rimasta là, al 4 settembre 1972». —