La Stampa, 5 settembre 2022
L’Iraq verso lo sfracello
Decine di morti, centinaia di feriti, la zona verde di Baghdad, il luogo più protetto della terra, impudicamente nelle mani dei manifestanti, il palazzo che fu di Saddam ora sede del consiglio dei ministri e ostello di lusso per gli ospiti di riguardo occupato, altre città in preda ad analoghi tumulti, strade di comunicazione bloccate, milizie pro iraniane ma inglobate nell’esercito che minacciano il pugno di ferro contro quello che definiscono il “colpo di Stato’’: insomma l’Iraq nato nel duemilatre dalla occupazione americana è arrivato al punto terminale della agonia. Non ci sarebbe da rammaricarsi molto visto che è basato sulla appropriazione indebita e sull’utilizzo dei pubblici uffici per guadagni personali. Ma in un vicino Oriente attraversato da altre lugubri piaghe, percorso da sgherri e urlatori fanatici, c’è da rabbrividire di fronte all’ennesimo scenario da apocalisse visto la settimana scorsa. Kirby, portavoce del dipartimento alla difesa degli Stati Uniti, responsabili principali di questi fiorenti malcostumi, definisce «le violenze inquietanti» e invita «alla calma e al dialogo». Commentino che sa del tono obbligato, del “ciò che bisogna dire’’, insomma sembra esclamare come madame Bovary «è colpa della fatalità».
Contempliamo dunque le macerie fumanti che gli Stati Uniti lasciano dietro di sé quando decidono che il controllo dei loro interessi costa troppo o è diventato secondario. Nei luoghi più disperati del mondo dove la petropolitica si traveste da fanatismo religioso e sciovinismo etnico noi troviamo perfetti soci di affari.
Il dato più sconfortante di quanto accade a Baghdad è che non siamo di fronte a un tentativo di necessaria rivoluzione per rovesciare corruzione e malgoverno come proclamano alcuni protagonisti a loro volta druidi dell’estorsione. Naturalmente non è vero niente. In realtà si assiste a una feroce lotta per il potere tra le fazioni sciite per spartirsi poltrone e denaro. Null’altro. Che poteva accadere se non questo in un Paese tumefatto, un Iraq manomesso e straziato con le fazioni bene in armi, garbugli di ogni genere da sgrovigliare, le onde sismiche dello Stato islamico e di partiti di ogni stazza, le speranze della popolazione rosa dalla miseria e umiliata dalla malora?
La solita vecchia storia: l’élite in questo caso sciita, a cui è stato affidato il potere del dopo tiranno, promossa a democrazia, adotta con entusiasmo il capitalismo clientelare e la cricca degli alleati nostri si imbarca esultante nella caravella della privatizzazione del potere. Baghdad è capitale del saccheggio sistematico che tira avanti da due anni senza un bilancio statale e senza un governo nel pieno dei poteri e dove come le vittime, il popolo iracheno, anche i beneficiari hanno un nome e un cognome.
In questa sciita repubblica dei compari dove tutto inizia in piissima mistica e poi finisce in ruberia, il sovversivo in turbante e vestaglia si chiama, ancora una volta, Moqtaba Al-Sadr. Erede di un’antica famiglia religiosa del luogo santo Najaf non è mai riuscito ad arraffare il potere nella percentuale che ritiene gli appartenga ma controlla il consenso fanatico di una fetta importante della popolazione sciita che lo venera come un santo. Al Sadr lo scorso anno ha vinto le elezioni ma non abbastanza. Gli sciiti divisi in mille gruppuscoli e consorterie abituati a dividersi il potere non sono riusciti ad accordarsi sulla abituale spartizione della torta dello stato.Allora Al Sadr, spazientito, a luglio, ha proclamato «la rivoluzione contro i corrotti», gettando in strada i suoi fedeli con la filastrocca della riforma radicale della marcia struttura del Paese. Tradotto: tutto il potere a Al Sadr.
I suoi bevono queste chiacchiere nibelungiche. In realtà il suo scopo è quello di formare un governuccio senza i suoi rivali, spezzare quella che è la regola costituzionale non scritta di questi venti anni, ovvero che i capi bastone dei principali partiti sciiti designano il primo ministro e poi procedono alla spartizione minuziosa delle poltrone e soprattutto del denaro. È stato calcolato che durate il mandato del grande nemico di Al Sadr, il premier Al Maliki, il denaro sottratto allo Stato in fiumi e torrenti corruttivi ha toccato la somma astronomica di 551 miliardi di dollari.
Il bersaglio del santone di Najaf è proprio il sistema di potere di Al Maliki, altro malversatore di primordine, costruito pazientemente nel corso degli anni, presidiando con i fedelissimi tutti i gangli dello Stato e le poltrone che contano, nella banca centrale nei ministeri, nella magistratura, nell’esercito, nelle ambasciate, nelle agenzie governative ovunque scorra il denaro.
Al Sadr non vuole l’eutanasia di questo sistema criminofilo. La macchina del saccheggio non si deve certo bloccare, solo che la vuole tutta per lui. L’uomo è un artista della finzione, dell’inganno, dell’equilibrismo sul filo del rasoio. Anche questa volta gioca a nasconderello con tutto il suo repertorio di trucchi, trovate scenografiche, ricatti, colpi bassi: annuncia lo scioglimento del suo partito e il ritiro dalla politica per un domani di quieta beatitudine e poi invita i suoi sostenitori a scatenarsi nelle strade a ruota libera, fa lo sciopero della fame per invocare la pace ma lancia ultimatum. Ha mille parole d’onore; incantevole bugiardo come impone la mistica sciita della santa mistificazione non ne rispetta alcuna. Gli ayatollah di Teheran, il grande fratello a cui tutti gli sciiti iracheni con sfumature tattiche devono riferirsi, scrutano con sospetto ciò che accade a Baghdad, pilastro della loro mezzaluna sciita che perde colpi, appare percorsa, dal Libano alla Siria, da larghe crepe.
I giovani iracheni che disperati per una condizione umana senza speranze avevano tentato un abbozzo di primavera, guardano senza più speranze alla ennesima sconcia e sanguinosa recita del potere. —