La Stampa, 5 settembre 2022
Identikit dell’elettore fugace
Nell’antropologia dell’elettore italiano la seconda tipologia è stata individuata perfino all’estero, dal giornale tedesco Süddeutsche Zeitung, che lo ha definito «flüchtige», traducibile come: fugace, volatile. Aggiungendo una discutibile similitudine ("wie ein furz”, “come una scoreggia"), che viene trascurata per concentrarsi sulla specie: 2. Il fugace.
Fino a trent’anni fa non esisteva o era un’anomalia. Chi ha conosciuto la Prima Repubblica ricorda tabelloni post-elettorali che registravano spostamenti dello zero virgola e segretari di partito che consideravano un trionfo la presenza del segno “+”. La stessa “onda lunga” craxiana che portò il Psi al 14,6 del 1987 partendo dal 9,6 della precedente gestione (cessata nel 1976), passando per l’11,4 del 1983, oggi sarebbe un’increspatura, un effetto raggiungibile tra un sondaggio di primavera e uno d’inverno, un brivido appena sulla schiena dell’elettorato, così passeggero che se non si vota in fretta rischia di affondare nella risacca di una legislatura. Perché oggi, ma non da oggi, i fugaci sono la sola, autentica maggioranza.
Come quasi tutto negli ultimi trent’anni, sono venuti alla luce con Silvio Berlusconi. Lui ha sdoganato il libero corso degli umori, dei proibiti amori, la spudoratezza e l’infedeltà. C’erano anche prima, ma nessuno li intercettava. Con Forza Italia, il partito che va da 0 a 100 in 4 secondi, escono dai garage e vengono allo scoperto. Dal ’94 in poi, davvero, niente è stato come prima, soprattutto in cabina elettorale. La marea ha portato al largo il Pd renziano e poi l’ha rispedito sugli scogli, dove il partito giace dimezzato e l’ex leader ridotto ai minimi termini. La stessa sorte è toccata al Movimento 5 stelle, alla Lega salviniana (che ha fatto il percorso di andata e ritorno al buio, nel circuito delle ipotesi e senza passare all’incasso) e ora, stando ai sondaggi, ai Fratelli d’Italia.
È un gran vortice di spostamenti. Sembra di stare su una barca dove, avvistato un delfino, tutti si buttano dallo stesso lato, compromettendo l’equilibrio generale, finché non viene annunciato che dall’altra parte si può vedere addirittura un branco. Che cosa produce “l’effetto delfino”?
Esiste una teoria, espressa da Antonio Preiti, che fa risalire la causa al 2008, alla crisi economica che mise fine all’incanto della globalizzazione determinando un miscuglio di emozioni tra cui la prevalente era, ed è, il risentimento. Verso l’élite e al contempo verso gli ultimi. Verso i poteri forti e verso i deboli arrivati via mare. Andandone a cercare la miccia ancor più in là si arriverebbe probabilmente all’individuazione della “casta” come primo bersaglio. Ma ci si può fermare lì?
Se il peccato originale, la grande scossa tellurica, è quella del ’94 con epicentro ad Arcore, qualcosa era già successo. Si ritorna alla lingua tedesca con l’analisi di Piero Ignazi che ricorre al termine «parteiverdrossenheit», disaffezione per i partiti, per quelli vecchi. Di qui la coincidenza tra «fugace» e «nuovista». Dal vocabolario Treccani: «colui che ama o ricerca le novità, anche a ogni costo e in maniera superficiale e velleitaria».
Sono nuovi molti dei “delfini” che hanno provocato spostamenti (Berlusconi, Grillo, lo stesso Renzi, Meloni in sé e non per quel che rappresenta). Non tutti. Che altro li unisce? Cosa ha attratto un elettore che rischia di assomigliare al bambino di una pubblicità mentre chiede alla mamma: «Portami qualcosa di nuovo, una sorpresa e del cioccolato»? Che cosa è «nuovo» e «sorprendente» per lui?
Unendo i puntini appare: ciò che non ha governato prima. Chissà se funzionerà, basta che non sia quel che abbiamo appena provato. La carta vincente è la mancata compromissione con il sistema esistente. A ritroso vale per Meloni, unica a non aver partecipato ai governi della legislatura conclusa e alla rielezione del presidente Mattarella; valeva per i 5 stelle che intendevano scardinare le istituzioni e valse per Berlusconi che doveva scavare nella melma della politica la trincea del lavoro e dell’imprenditoria.
A essere maliziosi la «sorpresa» che il nuovista si aspetta si presenta come un vantaggio per lui e/o famiglia: un milione di posti di lavoro, 80 euro, il reddito di cittadinanza, la flat tax. E la sua volubilità è l’effetto della promessa non mantenuta, rivelatasi insufficiente, scavalcata da un’altra più clamorosa che non verrà mantenuta e si rivelerà insufficiente. A forza di cambiare, esaurite le invenzioni, si può finire per tornare a una casella già sperimentata: come si dice nel giornalismo, «non c’è niente di più inedito dell’edito».
Eppure si possono avere molte illusioni, ma una disillusione dovrebbe essere definitiva. Il fugace ha corta memoria, di sé e del mondo: chi ricorda che Meloni è già stata ministro? Se non è stata giudicata (dagli elettori della capitale e non dai burocrati europei) all’altezza per fare il sindaco di Roma, come può essere ritenuta un affidabile premier?
Il fugace ha sempre una giustificazione. Il presente non lo soddisfa mai. Come in un’altra vecchia pubblicità è un «incontentabile»: marcia verso il seggio con aria disgustata, indica un prodotto diverso da quelli già testati, ma il commesso sa che lo riporterà indietro per cambiarlo, anche fosse scaduta la garanzia. Con la stessa veemenza con cui ha sostenuto la scelta precedente, la scarica. Nessuno è più feroce verso il passato di un convertito. Tutti abbiamo provato l’imbarazzo di ascoltare un ex disprezzare la fede e il guru che aveva comprato ed esaltare quel che aveva fin lì biasimato. Un solo alibi non è contestabile al fugace: che l’elettore sia lo specchio degli eletti. I cambi di gruppo in parlamento nell’ultima legislatura sono stati 332. Forse gli elettori non stanno fuggendo, ma inseguendo. —