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 2022  settembre 05 Lunedì calendario

Intervista a Piervittorio Pozzo, nipote del ct azzurro

Celebrazioni sì, ma solo se politicamente corrette. Vale in po’ per tutto, figuriamoci per il Campionato del mondo di calcio che ambisce ad essere (ed in parte lo è) «l’immagine di un Paese» a livello globale. In quest’ottica l’ondata mielosa del mese scorso in occasione del 40ennale dell’apoteosi tricolore nell’82 in Spagna è stato perfettamente funzionale a una narrazione «progressista» in dribbling retorico tra un «presidente-partigiano» (Sandro Pertini), un Ct «buonista» (Enzo Bearzot) e una squadra «nazionalpopolare» (gli azzurri di capitan Dino Zoff). 
Ma proviamo, per un attimo, a innestare la retromarcia della macchina del tempo, sostituendo Sandro Pertini con Benito Mussolini; Enzo Bearzot con Vittorio Pozzo; gli azzurri di Dino Zoff con quelli di capitan Silvio Piola. Il risultato sarebbe l’oblio che da sempre ricopre i nostri due primi titoli mondiali (del ’34 e del ’38) «rei» (al pari delle Olimpiadi del ’36) di essere stati conquistati in epoca fascista con calciatori che si presentavano al pubblico orgogliosi di fare il saluto romano. Scandalo. Roba da tenere chiusa nel cassetto. Una sorta di damnatio memoriae. Vuoi mettere con lo storytelling dello scopone giocato in aereo tra Pertini, Bearzot, Causio e Zoff? 
Ne abbiamo parlato con Piervittorio Pozzo, 70 anni, nipote di Vittorio Pozzo, mitico commissario tecnico azzurro, ex tenente degli alpini, che portò il pianeta azzurro a dettare legge nell’universo del calcio. 
La «censura» che grava sui due Mondiali e l’Olimpiade vinti da suo nonno le crea amarezza?
«Su quelle celebri imprese sportive incombe un cono d’ombra, causato da un pregiudizio ideologico».
Di chi è la colpa?
«Il problema è di ordine culturale. I ragazzi di oggi conoscono solo i Mondiali vinti nel 1982 e nel 2006 e nulla sanno dei precedenti. Ma la responsabilità è di chi ha cancellato le prime due pagine gloriose per paura di compromettersi».
Vale per tutto ciò che in Italia è riconducibile in qualche modo al Ventennio.
«Nel caso di mio nonno il rimando al fascismo è solo di ordine temporale. In realtà Vittorio non fu mai fascista». 
Eppure...
«Eppure il pregiudizio politico resiste».
Faccia un esempio.
«Una sindachessa di Torino, quando si pensò di intestare il nuovo stadio di Torino (l’attuale delle Alpi) a Vittorio Pozzo, legato a doppio filo alla storia del Toro e alla città, mi diede una risposta sconcertante».
Quale?
«Le sue parole furono: Ma le pare che possiamo dedicare il nuovo stadio a un fascista?».
Vittorio Pozzo, al contrario, era un alpino «servitore dello Stato».
«Un alpino fiero di quella penna nera che portava sul cappello. E orgoglioso del suo Paese che difese in guerra. Amante della famiglia. Fedele a valori incrollabile come lealtà, libertà e onestà».
Non prese mai la tessera del partito fascista?
«Mai. Ci teneva alla sua indipendenza e ripeteva sempre: Se prendesi la tessera, il giorno dopo il partito si sentirebbe in diritto di impormi la formazione.
Invece?
«Invece le convocazioni le fece sempre con la sua testa, idem per gli undici da schierare in campo. E vuol sapere una cosa che oggi potrebbe sembrare paradossale?».
Dica.
«Mio nonno si pagava le trasferte di tasca proprio. E non accettò mai lo stipendi».
Lavorava gratis?
«Completamente gratis. Diceva: La ricchezza più grande è quella di potersi fregiare del titolo di commissario unico della nazionale italiana».
Ma se da commissario tecnico non prendeva una lira, come faceva a mantenere la famiglia?
«Ha sempre fatto il giornalista per la Stampa».
Nel football milionario di oggi si troverebbe a disagio.
«Di più: sarebbe totalmente incompatibile con le logiche di business che regolano il calcio professionistico». 
Si narra che fosse tifoso del Torino.
«Sì, era di fede granata. Fu tra i fondatori della società e allenò il club per due stagioni. Ma quando si trattava di fare le convocazioni, badava solo a quelli che erano più in forma. Ed era solito privilegiare il blocco juventino».
Dopo la tragedia di Superga, toccò proprio a lui riconoscere i corpi di alcuni dei suoi «ragazzi».
«Fu il giorno più brutto della sua vita. Ricordando quel dramma non riusciva a trattenere le lacrime».
Per Vittorio i giocatori erano dei figli.
«Sì. Con loro aveva un rapporto da pater familias. Tutto ruotava attorno al rispetto e alla disciplina».
Credere, obbedire, combattere. Tre verbi declinati in chiave sportiva.
«L’impronta militaresca di mio nonno è innegabile. Era cresciuto nell’alveo di gerarchie ben precise. Ma il suo atteggiamento nei confronti dei giocatori non fu mai di tipo dittatoriale ma improntato all’autorevolezza».
Dote che i calciatori gli riconoscevano senza remore. Mai uno screzio, una contestazione. 
«I calciatori sentivano che dietro gli ordini perentori di quel mister c’era l’affetto di un uomo che dava tutto se stesso per la causa».
E «la causa» era portare la nazionale italiana sul podio del mondo.
«Ci riuscì per due Mondiali di seguito intervallati dalla conquista di un Europeo altrettanto prestigioso».
In un’intervista televisiva degli anni ’40, un giovane Nando Martellini intervistò in tv Pozzo. E ne vennero fuori delle belle...
«Ricordo benissimo quell’intervento in tv, di cui oggi restano tracce anche sul web. Alcuni concetti di allora espressi da mio nonno, ai giorni nostri, scatenerebbero un putiferio».
Vittorio Pozzo confessò di leggere preventivamente le lettere ricevute e spedite dai suoi giocatori per accertarsi che ogni scritto fosse ineccepibile sotto il profilo morale».
«Oggi un simile comportamento da parte di un allenatore sarebbe inconcepibile. Ma a quei tempi e in quel contesto, perfino questa norma era considerata normale e benaccetta da tutta la squadra».
Per non parlare della regola che imponeva ai giocatori di non leggere i giornali sportivi...
«È vero. Mio nonno spiegò questa imposizione, apparentemente assurda, con l’intenzione di tutelare i suoi ragazzi da ingerenze esterne che ne avrebbero potuto condizionare le prestazioni agonistiche».
Che ricordo ha il nipotino Piervittorio del famoso nonno Vittorio?
«Un ricordo tenero. Non lo vedevo spesso, ma solo in occasioni particolari come il Natale. I suoi racconti mi sembravano favole bellissime, in realtà erano fiabe reali che non aveva vissuto davvero».
Un aneddoto.
«Durante la finale mondiale del ’34 c’erano due calciatori della nazionale – uno era Mazzola, dell’altro non ricordo il nome – le cui famiglie erano produttori di palloni da calcio. Prima della finale Mazzola portò il suo pallone chiedendo che la partita fosse disputata con quella sfera di cuoio. Ma l’altro collega di Mazzola fece la stessa richiesta sostenendo che il pallone prodotto dalla sua ditta fosse migliore. Mio nonno si trovò dinanzi a una situazione imbarazzante. Quale pallone scegliere?».
E come risolse il dilemma?
«Il primo tempo fu giocato con un pallone, il secondo con l’altro».
Soluzione salomonica.
«Nonno non avrebbe mai fatto un torto a uno dei suoi allievi. In certe cose era un tradizionalista, ma per altre era un rivoluzionario».
«Fu lui l’inventore del metodo, uno schema tattico che prima di allora non era mai stato adottato in campo. Inoltre si inventò il ritiro per amalgamare meglio il gruppo e tenere alta la concentrazione pre-gara. Infine fu il precursore del mister in versione super-manager che si occupa della squadra a 360 gradi: dalla logistica all’alimentazione, dai sistemi di allenamento agli svaghi extra calcistici». 
Qual è il cimelio della collezione-Pozzo che, da piccolo, le suscitava più curiosità?
«In occasione di una partita con la Francia, i Transalpini gli fecero dono di un enorme gallo in ferro: una scultura pericolosissima da maneggiare perché le piume erano taglienti e il ferro si era arrugginito. Ora quel gallo francese è uno dei pezzi più ammirati del Museo Pozzo».
Un anno Vittorio Pozzo fu anche allenatore del Milan.
«Un’esperienza che coincise col suo impegno professionale nell’ufficio propaganda della Pirelli. Per lunghi periodi di aggiornamento ha vissuto all’estero. Conosceva quattro lingue».
Piemontese purosangue. Patriota. Calciatore prima, allenatore dopo. Reporter. Quale, tra i tanti «Pozzo», le è rimasto più nel cuore?
«Non riesco a scindere le figure. È stato un uomo poliedrico, un giramondo che ha messo a frutto studi e conoscenze per innovare il calcio». 
Le vittorie dei Mondiali negli anni Trenta, intervallate dal successo alle Olimpiadi del 1936 (unica volta che l’Italia è riuscita ad affermarsi nella manifestazione), consolidarono nel nostro Paese il football come un fenomeno di costume coinvolgente per qualsiasi strato sociale. 
«Mio nonno è stato il Ct tecnico più vincente della storia della Nazionale, ma tutto quello che ha fatto è figlio della sua passione e della sua competenza. Perfino il Duce dovette rassegnarsi: Pozzo era un uomo impossibile da manovrare».
Oltre ad essere un motivatore eccezionale, in grado di trasformare in oro ogni competizione. 
«Come, ad esempio, le affermazioni del 1930 e del 1935 nella Coppa Internazionale: la competizione antesignana degli Europei». 
In quel decennio eravamo davvero i più forti di tutti. Perfino degli inglesi.
«In quel periodo gli inglesi non partecipavano alla Coppa del mondo. Ma quando li incontrammo non fummo inferiori: a Londra, pochi mesi dopo la vittoria del nostro primo Mondiale, perdemmo 3 a 2 solo perché fummo costretti a giocare in dieci (all’epoca non esistevano le sostituzioni) dopo che Monti si ruppe un piede in un brutto scontro di gioco».
La famosa «Battaglia di Highbury?».
«Esattamente. E i nostri vennero ribattezzati i leoni di Highbury dal telecronista Nicolò Carosio».
Nel ’39 ci fu la rivincita in Italia allo stadio San Siro: finì 2 a 2.
«Anche quella fu una gara avvincente. Peccato che la guerra impedì lo svolgimento dei Mondiali del 1942: sarebbe stato bello poter provare a ottenere la terza vittoria mondiale consecutiva».
Ma sia nel primo Mondiale vinto in Italia sia nel secondo in Francia si parlò di «forti aiuti esterni» per facilitare il doppio successo azzurro.
«Se aiuti ci furono, avvennero certo all’insaputa di mio nonno. Lui non avrebbe mai considerato neppure lontanamente l’ipotesi di una combine». 
Nel ’48 Pozzo rassegnò definitivamente le dimissioni.
«Un’epopea gloriosa si era conclusa. E forse mio nonno aveva capito che il suo modulo stava per essere soppiantato dal sistema che in Italia già praticava il Grande Torino».
Giampiero Boniperti un giorno raccontò che quando Vittorio Pozzo gli consegnò per la prima volta la maglia azzurra titolare, entrambi scoppiarono a piangere.
«Nonno gli spiegò che quello era il momento più solenne per la carriera di un calciatore; Boniperti lo comprese benissimo e fu travolto dall’emozione. Altri tempi. Altro calcio. Altri valori. Tutto, ormai, irripetibile».