il Giornale, 5 settembre 2022
Ritratto al veleno di Renato Brunetta
Renato Brunetta quando lo guardi sembra sempre ce l’abbia con te, anche quando sorride. E di fatto Brunetta non sorride mai. Gli altezzosi, ghignano.
Un ghigno capace di aprire conflitti, iroso, del tutto privo di autoironia, permaloso come un Recalcati, pignolo come una Gruber, sempre disponibilissimo a farsi un selfie coi «Brunetta lovers» ma incapace di innamorarsi di qualcuno che non sia se stesso e campione assoluto di rissa verbale (c’è soltanto una cosa che gli piace più di litigare: avere ragione), Brunetta bagolo, pagiòla e papusse – ama tre cose. La prima è Venezia. Ricambiato: due volte candidato sindaco, due volte bocciato. È nei Registri della Serenissima, anno 2010, seconda corsa alla poltrona di sindaco mentre è già ministro per la Pubblica amministrazione, quella volta che percorrendo la roadshow dalla Stazione di Santa Lucia a piazza San Marco distribuendo strette di mano e santini, viene fermato da un vecchio veneziano che lo saluta: «Onorevole, mi ghe dago il voto, e con mi ghe se tuta la me famegia: semo in sie. Ma me scusa tanto: come xe che pol far insieme el sindaco e ministro?». Risposta di Brunetta: «Ma non rompermi i coglioni!». Come perdere sei voti in un colpo. Diceva di lui Gianni De Michelis, del quale Renatino era ai tempi il portaborse: «Brunetta è intelligente, ma deve stare in seconda fila. Se lo mandi avanti, antipatico com’è, fa danni».
La seconda cosa che ama di più – la vera passione – è la politica, cui è fedelissimo da quarant’anni, quando era consigliere economico nei governi Craxi I, Craxi II, Amato I, Adorato II, Idolatrato III, Venerato IV: il socialismo non si professa, si divinizza. Come il potere.
E la terza sono i dipendenti pubblici, che ama così tanto, ma così tanto, che vorrebbe passare tutto il giorno con loro. Per sorvegliarli meglio. «Fannulloni!» «Tornate a lavorare!». «Imboscati di m*rda!». «Vi riformo dalla testa ai piedi!».
Testa brillante e piedi per terra, Renato Brunetta è sì intelligentissimo. Ma non gli basta. Lui vuole essere un genio. È noto a tutti, tranne agli accademici di Stoccolma, la volta in cui, ospite da Enrico Mentana, con un coraggio che in una scala da uno a La7 vale dieci, e con il suo proverbiale senso della misura, confessò che da giovane puntava al Nobel per l’Economia. «Ma Lei sta scherzando, vero?». «No, affatto: perché?». Ma poi, si sa, Brunetta optò per una più rassicurante carriera precaria. Quale è, appunto, la politica.
Precario come deputato per tre legislature, due da europarlamentare, tre anni da Ministro per l’Innovazione, per due volte Ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta è un fautore assoluto dell’efficienza. Il suo sogno è aumentare la produttività del 50 per cento. «Bisogna raddoppiare tutto!». Tipo: fare il ministro in due governi diversi. Brunetta è talmente produttivo che nessuno come lui ha fatto fruttare così tanto la propria carriera politica. Svariate poltrone, innumerevoli incarichi, infinite deleghe e 72 anni d’età, è il ministro in carica più anziano, tanto che se Mario Draghi fosse diventato Presidente della Repubblica è andata male, peccato... – Brunetta in quanto decano del Governo sarebbe diventato premier ad interim. Che non è veneziano, e in italiano significa: «Il più a lungo possibile». Abondansa e arogansa xè tuta na pietansa.
Ora Brunetta, finita l’abbuffata politica, dopo l’addio a Forza Italia ha deciso di non candidarsi più (ma poi: con chi?). E ieri, a Cernobbio, la sua ultima volta sul palco del Forum Ambrosetti, si è anche commosso. Tornerà a insegnare. Da precario della politica al posto fisso di Professore. Una rivoluzione dalla sera alla mattina.
Serioso più che serale, mattinale più che mattiniero, Brunetta, da figlio di un venditore ambulante di gondoete e suvenir, bancarella in lista di Spagna sognando l’America, ultimo di tre fratelli, fiòlo della Venezia popolare, dai marciapiedi di Cannaregio a Piazza di Montecitorio, fin da piccolo ha imparato il valore del sacrificio, l’ansia di riscatto, la sacralità del lavoro e soprattutto l’ingiustizia di un mondo diviso fra i ricchi e la brunetta dei Ricchi e poveri. A pensarci bene, il ministro perfetto per la Pubblica amministrazione. I lavoratori in smart working? «Imboscati!». I precari? «L’Italia peggiore!». Le élite? «Di merda». I poliziotti? «Panzoni!». I registi? «Parassiti!». I sindacalisti? «&*?#§ù!».
«Ma a questo che dorme sul posto di lavoro gliela mandiamo o no una bella lettera di licenziamento?».
Parole che Renato Brunetta detesta: «Smart working». «Concertazione». «Giulio Tremonti». «Salario minimo». «Spread». «Reddito di cittadinanza». «Aumenti di stipendio». Ma soprattutto «Matteo Renzi», body shaming e granseola.
Goloso di granchietti e anguelle, judoca (gli piace molto giocare) – primo dan, secondo vengono gli sgei – un amore per i classici e la storia romana sognandosi novello Cincinnato, tanto che per prepararsi all’abbandono dell’agone politico si è comprato una tenuta nell’Agro romano, borgo Capizucchi, Renato Brunetta (Lib-lab, tip tap e keynesiano dalla testa alla punta della cravatta) ha sempre creduto nell’economia, ambito purtroppo meno affidabile dell’aruspicina. Brunetta e quelli che la moneta unica ci renderà tutti più ricchi, la Brexit distruggerà la Gran Bretagna, il green pass preserverà l’economia, le sanzioni piegheranno la Russia... L’economia non è solo la scienza triste, è anche la più inesatta... E non si capisce, viste le troppe previsioni sbagliate degli economisti, se la cosa è più drammatica o più comica.
Comico nei momenti più drammatici e drammatico nei momenti quasi comici, di lui narra la leggenda che temporibus illis, era il 2008, dovendo Silvio Berlusconi nominare i ministri del suo nuovo governo, e avendo scelto per l’Economia l’acerrimo collega Giulio Tremonti – si era a Palazzo Grazioli – il delusissimo Renato si gettò istericamente a terra, scalciando e gridando: «Silvioooooo, se non mi fai ministro, non mi alzo da qui!». E non si alzò. Se non una volta avuta la nomina al dicastero dell’Innovazione. Un’appendice recita che, il giorno dopo, gli stessi che presenziarono all’atto di superbia assistettero a quello di umiltà, quando Brunetta si gettò ai piedi del Capo, piangendo: «Silvio perdonami! Ti pregoooo!!».
Ateo, dichiarazioni spesso sopra le righe e un attivismo plateale, Renato Brunetta resta con tutti i tanti pregi e qualche difetto un italiano archetipico. Furbo, astuto, ossessionato dal potere – ora fedele al Cavaliere ora mansueto coi Draghi – e con un debole atavico e italico per il mattone. Villone con 14 vani catastali, giardino e piscina sulla via Ardeatina a Roma. Casale a Todi. Villetta a picco sul mare di Ravello. Una casina nel parco delle Cinque Terre, residenza a Venezia a Dorsoduro. Da cui la celebre orazione: «L’Imu non si paga perché lo dico io che sono la maggioranza».
Ubi Di Maio minor cessat, l’aspetto più umano di Brunetta un cursus honorem accademico e politico da annichilire metà Parlamento, l’altra metà invece non sa il latino è l’invidiabile capacità di mantenere la testa fredda quando la situazione si fa calda e scegliere la frase esatta nel momento migliore. Solo uno statista come lui poteva dichiarare: «A Salvini e Meloni dico: smettetela con i giochetti da Prima Repubblica, il Paese ha bisogno di serietà». Che poi è il motivo per cui la politica fa così ridere.