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 2022  settembre 04 Domenica calendario

Su "Ferite ancora aperte. Guerre, aggressioni e congiure" di Paolo Mieli (Rizzoli)

Una volta che è stata inferta, esiste davvero la possibilità di rimarginare una ferita? Una ferita fisica — grande o piccola che sia, come i graffi che ci procuravamo sulle ginocchia da bambini —, una ferita psicologica o una ferita storica. Ma cos’è una ferita storica? È qualcosa che non ha colpito solo una persona; ma che, immediatamente o con il tempo, è diventata una lesione, un danno che ha segnato un popolo intero o che, dal passato, come un fantasma si è fatto strada fino a noi. Mi spiego meglio. Se ci guardiamo le ginocchia con attenzione, vi ritroveremo tracce, sempre più sbiadite ma ancora presenti, dei bambini che siamo stati. Sulle ginocchia un tempo sbucciate e ora rimarginate, possiamo trovare la nostra storia. Se la guardiamo da questo punto di vista, allora, è davvero possibile rimarginare una ferita?

In Ferite ancora aperte, il suo nuovo saggio, Paolo Mieli, giornalista e storico, si interroga su questo punto cruciale. Esaminando, ricostruendo, decostruendo, ponendo in una diversa prospettiva momenti critici della storia dell’umanità — dalla crociata pacifica di Federico di Svevia ai roghi delle streghe, dalla Germania di Hitler alla Russia di Pietro il Grande, dal Risorgimento alla fondazione di Roma, dalla nascita della religione cristiana all’importanza delle donne nella politica di ogni tempo — si addentra in uno dei più difficili ruoli dello storico: cercare di fare chiarezza su eventi vicini e lontani, smontare i pregiudizi che hanno accompagnato la tradizione ormai consolidata di certi fatti storici, ma soprattutto evidenziare come niente di ciò che accade oggi nasca dal presente. Il filo d’erba che oggi strappiamo dal prato, proviene in qualche modo dall’alba dei tempi.

Capire il passato per capire il presente. Ferite ancora aperte (in uscita martedì per Rizzoli) inizia con un saggio di un’attualità dirompente: i rapporti tra Ucraina e Russia nell’arco di cent’anni. Cos’ha portato alla guerra che oggi vediamo impazzare da più di mesi, sanguinosa, e che ci riguarda tutti? Mieli parte dalla Prima guerra mondiale, passa dalla rivoluzione del 1917 e dalla Seconda guerra mondiale, e arriva a oggi. Racconta come la narrazione di Putin in diretta tv, «tre giorni prima di oltrepassare con le proprie truppe i confini dell’Ucraina», narrazione che pretendeva di convincere il mondo che l’Ucraina, come nazione, di fatto non esiste, poiché è stata «interamente creata» dalla Russia, è una narrazione falsa. L’Ucraina ha ottenuto l’indipendenza più volte nel corso dei decenni, la prima il 25 gennaio 1918, giorno in cui nacque la Repubblica d’Ucraina. Putin — e non solo — cerca oggi di riscrivere la storia. E il ruolo dello storico è proprio remare contro questa riscrittura, basarsi non sull’invenzione, ma sull’esperienza. Che, come diceva Italo Calvino, «è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso».

Allora, ripeto, è possibile sanare una ferita? Risponde Mieli: «Le ferite del passato non si cicatrizzano mai». E ancora: «Niente può considerarsi definitivo per quel che attiene alla guarigione, più o meno apparente, dalle lesioni prodottesi anni, decenni, secoli, addirittura millenni fa (...). Talché dovremmo considerare lo studio della storia come un modo di tenerle sotto controllo. Eventualmente riaprirle di proposito, con tutte le cautele del caso. Indagare meglio su cosa le provocò. E medicarle con cura». Poiché — e qui il discorso di Mieli sulle ferite si fa non solo storico ma anche umano, anche letterario — le ferite servono a capire che «i problemi non si risolvono mai, una volta per tutte. Si ripresentano, spesso in forme tali da apparire nuovi, laddove invece sono nient’altro che una riproposizione di antichi traumi. Traumi che abbiamo conosciuto, affrontato, in un certo senso risolto. Facendo però poi l’errore di dimenticarcene».

Ed è proprio questo che dobbiamo fare: ricordare, e studiare. Ricordare, e studiare, per esempio, come il potere delle donne — nella religione, nella politica, nella conoscenza (come racconta Mieli in diversi saggi di questo libro) — sia stato osteggiato in ogni modo dal potere maschile: chi può asserire che non succeda ancora oggi? Nessuno. Ma per fare in modo che non succeda più, un’arma potentissima è proprio sapere da dove parte quella ferita: qual è stato il primo graffio che ha solcato il corpo, e la mente, delle donne, e da dove viene la paura degli uomini di riconoscere un ruolo di potere a un individuo femminile. E così studiamo le donne bruciate come eretiche — donne che stavano acquistando potere, che l’avevano acquistato —, o Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, che tanta parte ebbe nelle vicende politiche dell’Ottocento europeo, ma che non fu in alcun modo consegnata alla memoria storica. Ma ci addentriamo, con Mieli, anche in altre questioni che ci riguardano ancora oggi.

Nel capitolo «Perché Federico di Svevia è nell’Inferno di Dante?», per esempio, lo storico ci racconta la «crociata della pace» di Federico II, al quale, nonostante tutto, non fu mai ritirata la scomunica. Perché Federico era un uomo del cambiamento e, allora come adesso, chi cerca di cambiare in piccolo o in grande il mondo non è mai visto di buon occhio. La definizione di Federico come stupor mundi et immutator mirabilis — stupore del mondo e meraviglioso innovatore — infatti, spiega Mieli, non aveva una connotazione positiva: «L’ordine del mondo era espressione della volontà di Dio, che l’aveva creato in quel modo, e, dunque, ogni cambiamento, così come colui che lo provocava, era visto necessariamente con sospetto». E ancora, Mieli risale indietro nei secoli fino ad arrivare a un punto cruciale della Storia: il momento in cui Dio ha smesso di possedere una «prorompente fisicità» ed è diventato «trascendente, invisibile e incorporeo», e quali sono i motivi che hanno portato a una frattura fra il divino e l’umano.

Ci addentriamo affascinati in questi saggi, ci immergiamo nel Medioevo e riemergiamo nel Novecento, torniamo indietro ai tempi di Annibale, Cesare, Traiano e poi corriamo fino ai giorni che stiamo vivendo, capaci adesso di capire meglio cosa ci sta succedendo intorno. Guidati da un potente filo rosso che è in fin dei conti l’accettazione che le ferite esistono, per ognuno di noi e per ogni momento storico, ma che le ferite della storia «ci riguardano. Sono ferite inferte a noi stessi. Anche se, in gran parte dei casi, secoli e secoli prima del momento in cui siamo venuti al mondo. Ferite di cui è utile che ogni generazione si prenda cura».