Corriere della Sera, 4 settembre 2022
Una lunga intervista a Mara Venier
Mara Venier, comincia la sua quattordicesima Domenica In.
«Baudo si è fermato a tredici».
Com’è Pippo con lei?
«Paterno. Ogni volta mi dico: basta, quest’anno smetto. Invece...».
Ogni tanto provano a far fare Domenica In a qualcun altro, e la richiamano sempre.
«È successo cinque volte. L’ultima, nel 2017, mi trovai seduto accanto in treno il direttore generale della Rai, che era Mario Orfeo. Mi chiese: “Quando torni a casa?”. Sono tornata».
Il segreto?
«Sono pop, non trash. Popolare, non volgare. E studio: il sabato sera non esco mai».
E cosa fa?
«Resto a casa a preparare la puntata. Se presento un libro, lo leggo fino alle tre del mattino. Quando stavo con Renzo Arbore mi diceva: dai, usciamo. Ma io niente».
Da Galeazzi a Ozpetek, ci sono personaggi che lei ha rilanciato o fatto conoscere al grande pubblico.
«Ferzan è un genio, ed è diventato un amico fraterno, ci scriviamo di continuo; come con Alberto Matano. Sono i regali che ti fa la vita. La gente si fida e mi vuole bene. E io mi emoziono ogni volta. Anzi, quest’anno di più».
Perché?
«Perché è una responsabilità. Non credo che spunterà uno tanto pazzo da fare quattordici Domeniche In. Però mi sono liberata dall’ossessione degli ascolti. Già la scorsa stagione avevo dato spazio all’impegno, alle storie importanti, agli argomenti seri. Quest’anno lo farò ancora di più».
A quale argomento pensa?
«Innanzitutto, la violenza contro le donne. Nella prima puntata avrò ospite la sorella di Alessandra, la signora di Bologna massacrata a martellate dal compagno più giovane. Una storia terribile di ossessione, di possesso, di libertà negata, di violenza. Io ne so qualcosa».
A cosa si riferisce?
«Ho avuto un compagno violento. Molto violento. Mi picchiava. È arrivato a cercare di uccidermi».
Cosa le ha fatto?
«Mi ha aspettato sotto casa con un coltello. Questa è una cosa che non ho mai raccontato. Sappia solo che ho pagato un prezzo altissimo».
Chi era quest’uomo?
«Uno che non ha accettato la fine della nostra storia. Diceva di amarmi ancora. Ma questo non è amore. Sono uomini che si sentono proprietari del tuo corpo e della tua anima. E ti distruggono».
In che modo?
«Non soltanto con le botte o con le coltellate. Ti fanno sentire una nullità. Una cosa nelle loro mani. Io ho provato la paura. La paura della violenza fisica, e la paura di sporgere denuncia. Ma ero innamorata, e quando ami non vuoi vedere: l’amore ti porta a giustificare quasi tutto. Fu un grave errore. Alla fine sono stata costretta a denunciare, andavo sul set con due carabinieri di scorta. Ma avrei dovuto interrompere la spirale prima. A lungo è rimasto dentro di me qualcosa di irrisolto: la debolezza, la rabbia, l’incapacità di reagire... Purtroppo noi donne siamo fatte così».
Così come?
«Abbiamo la sindrome da crocerossine. “Io lo salverò, con me lui sarà diverso, io lo cambierò”. Ma purtroppo loro non cambiano. E allora dobbiamo andarcene. Lasciarlo. Al primo schiaffo, subito. Non bisogna consentirgli di esercitare un potere, una violenza su di noi; altrimenti è finita».
Insisto: chi era quell’uomo?
«Quell’uomo non c’è più e io, alla fine, l’ho perdonato».
Chi è stato il suo primo amore?
«Il primo fu solo un corteggiatore: il principe Sebastien von Furstenberg, il nipote di Agnelli, figlio di sua sorella Clara. Veniva a prendermi su una Balilla Coppa d’Oro al palazzo dei ferrovieri di Mestre: un enorme cubo da sessanta famiglie per lato. Lui le svegliava tutte facendo tu-tu con il clacson. Oppure telefonava a casa di notte. Una volta rispose mio padre».
E cosa disse a Von Furstenberg?
«Principe, ma vai in mona!».
Come si chiamava suo padre?
«Giovanni Povoleri. Venier è un nome d’arte. Faceva il fruttivendolo, lo chiamavano el Toto de Rialto. Sono nata a Cannaregio, al ghetto. Poi papà trovò un posto in ferrovia, e andammo a Mestre».
E sua mamma?
«Elsa faceva la sarta. La sera mi mandava a riprendere papà all’osteria “La barachetta”: “Va a tore el Toto...”. Ma io lo vedevo così felice, mentre beveva un’ombreta e suonava la fisarmonica, che mi dispiaceva portarlo via».
Lei ha raccontato la malattia di sua madre nell’autobiografia, «Mamma, ti ricordi di me?».
«L’Alzheimer avanzò poco per volta. All’inizio lei alternava momenti di aggressività e di dolcezza. Mi riconosceva ancora, ma a fatica; così presi l’abitudine di salutarla dalla tv – “ciao mammina!” —, del resto era sempre stata così fiera di essere “la mamma di Mara Venier...”».
Ce lo ricordiamo tutti, divenne una scena di culto, divertiva e commuoveva.
«La Rai mi fece un richiamo».
Chi?
«Al direttore generale, che era Lorenza Lei, arrivarono un po’ di lamentele. Così mi fece chiamare dal direttore di rete, Mauro Mazza. Gli spiegai che era un modo per sperare che mia madre mi riconoscesse».
E Mazza?
«Mi disse: Mara fregatene, continua a salutare la tua mamma in tv».
Poi un giorno la signora Elsa non la riconobbe.
«Era seduta in giardino, bellissima – la mamma aveva gli occhi come i miei, ma più belli —, con un grande cappello, pareva Greta Garbo. La saluto felice: ciao mammina! E lei mi risponde: “Buongiorno signora”. Avrei voluto morire. Invece trovammo un altro modo per comunicare».
Quale?
«Le canzoni napoletane, che adorava. Io cantavo una strofa, e lei proseguiva. “Famme chello che vuó, indifferentemente”; “tanto ’o ssaccio che so’, pe te nun so’ cchiù niente...”. Un giorno cantò “Ohi vita, ohi vita mia”. Poi mi disse: “Va a tore el Toto”, vai a prendere il papà, che era morto da trent’anni».
E lei?
«Mi allontanai, poi le raccontai che avevo portato il papà a casa, ma senza umiliarlo, facendo le cose per bene. Lei rispose: “Tu hai sempre fatto tutto per bene”. Sono state le sue ultime parole. Un dolore terribile: sulle prime ho chiesto al dottore di farmi un’iniezione perché volevo seguirla, andarmene con lei. Ma quella frase fu anche una consolazione. Perché mia mamma da bambina non mi ha mai abbracciata; semmai mi prendeva a botte. E ai suoi occhi non avevo sempre fatto tutto per bene».
Ad esempio?
«La prima notte d’amore rimasi incinta. Non sapevo neppure come nascessero i bambini».
Fu il principe?
«No, con il principe non accadde nulla. Ma un giorno, in piazza Ferretto a Mestre, incontro un ragazzo bello come il sole, e me ne innamoro perdutamente: Francesco Ferracini. Facemmo la fuitina. E tre mesi dopo ci sposammo».
Matrimonio riparatore.
«Non ebbi il coraggio di dire ai miei che aspettavo un bambino, anche se mia mamma aveva capito. Il prete, don Gino Trevisan, era contrarissimo: “Tieni il toseto, ma non star a maritarte!”. La sera stessa delle nozze, lo sposo partì per Roma: sognava di fare l’attore. E io restai nella casa dei ferrovieri, dove nacque Elisabetta».
Ma poi andò a Roma pure lei.
«Un anno e mezzo dopo, per chiedere la separazione. Mio marito venne a prendermi in Rolls Royce, lui seduto dietro, davanti Roberto Capucci, lo stilista. Mi fecero dormire sul divano, il mattino mi ritrovai sola con un mastino napoletano – io ho paura dei cani – che mi fece prigioniera: quattro ore inchiodata all’armadio».
Roma matrigna.
«Al contrario. Quando vidi il tramonto dal Pincio mi dissi: io da qua non mi muovo più. Per fortuna Capucci mi guardò negli occhi e mi propose di fare la modella per lui: cinque giorni con un fotografo americano di Harper’s Bazaar, 100 mila lire al giorno. Mi sentivo Cenerentola. Non avevo mai visto in vita mai quei vestiti, e quei soldi».
E diventò attrice.
«Recitai la parte di Vanda, un’ebrea suicida dopo le leggi razziali, in “Diario di un italiano” con Alida Valli. Poi ho lavorato con Nanni Loy e Dario Argento. Ma anche con Mario Merola in Zappatore».
Com’era Merola?
«Un signore. Ogni sera mi portava a cena con mia figlia. E poi cantava le canzoni che mia mamma amava. Però con il cinema non campavo, così aprii un negozio di abiti usati in piazza del Teatro di Pompeo. Abiti come quelli che portava un’amica che mi ha insegnato molto: Gabriella Ferri».
Cosa le ha insegnato la Ferri?
«L’impegno. Occupammo la vecchia pretura, per avere un posto per noi donne. Anche pensando a Gabriella voglio portare il tema delle donne a Domenica In».
Altre grandi amiche?
«Maria De Filippi, che mi ha chiamato a Mediaset in un momento difficile».
E la D’Urso?
«Ci siamo sempre rispettate. Grande amica è Melania Rizzoli, che mi ha presentato Nicola Carraro, mio marito».
Come andò?
«Ne sentivo parlare da una vita: intelligente, gran figo, produttore ritiratosi a vita privata, tra Los Angeles e i Caraibi... Una sera Melania organizza una cena per far incontrare Nicola a tre sue amiche. Io chiedo: perché non inviti anche me? Rispose: perché tu sei fidanzata».
Con chi era fidanzata?
«Avevo un flirt con un giornalista della radio, Fabio Visca, quello della trasmissione Fabio e Fiamma. Comunque passo un pomeriggio in agitazione, mi trucco, mi metto un tubino nero, vado al ristorante come sempre in anticipo, e attendo questo famoso Nicola Carraro. Entra un cumenda milanese con la giacca blu dai bottoni d’oro, grande giocatore di golf, e mi dico: io non c’entro niente con questo qui. A peggiorare le cose, accenna un baciamano».
Perché a peggiorare?
«Detesto i baciamano. Per fortuna a cena c’è anche Gianni Boncompagni e chiacchieriamo tutta la sera. Con Nicola non ci rivolgiamo la parola, fino a quando lui mi fa: “Io la conosco”. Ci credo bene, vivo in tv... “No, la conosco perché lei fa una pasta e fagioli favolosa”».
Come poteva saperlo?
«Gliel’aveva detto un suo amico, il mio ex marito Jerry Calà, che tanti anni prima gli aveva confidato: “Mi sono innamorato di una ragazza dagli occhi meravigliosi, che per giunta sa fare la pasta e fagioli”».
Così con Carraro vi siete fidanzati e sposati.
«Ha fatto tutto Melania. A me ha detto: Nicola è pazzo di te. A lui ha detto: Mara è pazza di te. Una sera è salito a bere un bicchiere di grappa, e abbiamo scolato la bottiglia. Non è successo nulla; ma mi ha raccontato tutto di lui».
Lei ha lavorato pure con Fiorello giovane.
«Siamo rimasti molto vicini. Facemmo il Cantagiro insieme. Io ero caduta – ogni tanto cado rovinosamente – ed ero ingessata. Una sera in Calabria mi dimenticarono in albergo. Mi svegliai da sola: erano andati via tutti».
Pure Fiorello.
«Gli telefonai in lacrime. Era già all’aeroporto, e tornò indietro a prendermi. Fece duecento chilometri per non lasciarmi. Un gesto che non ho mai dimenticato».
Lei parla con un accento tutto suo, un misto di romano e veneziano.
«A Venezia dopo la morte della mamma per sette anni non sono riuscita a tornare. Ora ce l’ho fatta, ed è stato come chiudere il cerchio. Lo stesso vale per la violenza subìta: le cose vanno affrontate, il cerchio si deve chiudere. Ma certe ferite non si rimarginano mai davvero. Ed è giusto parlarne. Anche in tv. Anche se fa perdere ascolti. Ho avuto tutto, è il momento di rischiare qualcosa».