la Repubblica, 4 settembre 2022
Intervista a Sally Bayley
«Acasa mia gli uomini comparivano di rado e quando lo facevano il loro incedere era ostile. Ogni voltache spuntava un uomo, scoppiava una battaglia». Con un padre che è «principalmente una diceria, andava e veniva a intermittenza» e uno zio che quando compare dorme ubriaco sul pavimento («Da bambina pensavo che gli uomini dormissero sul pavimento perché non c’era altro posto dove farli stare»), Sally Bayley ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza in una famiglia disfunzionale di sole donne – la madre, la nonna, la zia – circondata da una nidiata di fratellini, tra i quali era lei l’“animale strano” che cercava nei libri la “vita vera”. Cresciuta con Miss Marple, Jane Eyre e David Copperfield come amici, è grazie alla lettura che riesce a fuggire da “tutto questo” e, affidata ai servizi sociali all’età di 14 anni, a frequentare poi l’università, come ha raccontato nel memoir d’esordioLa ragazza con la colomba tradotto in Italia da Clichy, al quale fa seguito ora la seconda parte di questa originale storia di formazione (No Boys Play Here ) dove la vita si mescola, abilmente, con la letteratura. Di questo parlerà aMantova l’8 settembre questa eccentrica autrice, che vive su una chiatta sul Tamigi nei pressi di Oxford, dove insegna. L’abbiamo raggiunta, via mail, qualche giorno prima del suo arrivo in Italia.
In questo libro racconta di un’adolescente che cerca il padre e lo zio assenti nei personaggi e nelle opere di Shakespeare: perché proprio Shakespeare?
«Ho scoperto Shakespeare a 13-14 anni in un momento cruciale per la mia crescita e sono rimasta folgorata. Mi ha illuminato sugli uomini, questi fantasmi che si aggiravano nella mia vita. Quando ho lettoSogno di una notte di mezza estateho capito che il mondo parallelo dell’allegoria e della fiaba – il soprannaturale in Shakespeare – poteva offrirmi una via d’uscita dalla mia vita. Poco dopo ho scoperto i suoi drammi storici, in particolare l’ EnricoIV,e ho capito che ci sono sempre personaggi che vengono esiliati perché non si adattano al modello dominante».
Si riferisce a Falstaff, al quale accosta suo padre e suo zio? Cosa rappresenta questo personaggio per lei?
«Falstaff è fonte di fascino e carisma, che a un certo punto viene meno.
ConEnrico IVho capito che personaggi affascinanti possono perdere attrattiva e quando accadevengono rifiutati. Falstaff è un giullare, un imbroglione che beve, ma alla fine sarà lui a essere ingannato. Grazie a lui ho capito come una persona amata possa rapidamente diventare indesiderata. In lui ho visto il padre fallito. Lui che un tempo era cavaliere perde il suo rango, sino a diventare un senzatetto. Come a un certo punto era mio zio, come lo era mio padre».
La storia si svolge attraverso strane scene teatrali che prendono vita nella mente di una ragazzina.
Che rapporto ha con il teatro?
«Ho insegnato scrittura teatrale e adattato la letteratura per il palcoscenico. Tendo a scrivere ideando scene che riproduco nella mia testa. Il teatro è una serie di corpi che si muovono rispondendo a una forza travolgente: la forza del dramma e del drammaturgo. Da bambina ero affascinata da quelle tende scure e dagli spazi dietro di esse, che associavo a un luogo di raccoglimento, di preparazione».
Alternando la storia familiare alle scene shakespeariane, pone alcune domande sul crescere poveri in una famiglia disfunzionale: cosa ci vuole dire?
«Non credo nella letteratura che manda messaggi. Piuttosto ho voluto creare un mondo in cui il lettore può immergersi per capireche accadono cose crudeli a chi non si conforma, agli eccentrici, ai disadattati, a chi non ha legami familiari o deve, in circostanze terribili, recidere questi legami».
Lei è acclamata dalla critica come autrice brillante e originale, il suo stile è stato accostato a Dylan Thomas. Che cosa piace tanto dei suoi libri?
«Amo il gioco linguistico, credo nella forza della sperimentazione. E amo la poesia. Il linguaggio metaforico di Shakespeare mi ha insegnato l’arte del transfert: ascoltandolo nella mia testa, spesso cantandolo ad alta voce, ho capito come può portarti altrove, in un luogo sicuro – il bosco delle fate fuori Atene – o in uno pericoloso, la collina fuori Londra dove Falstaff viene derubato.
Comunque altrove».
Ma questo libro è un memoir o un’opera teatrale? In certi momenti sembra una raccolta di riflessioni sul potere salvifico della letteratura. C’è un modello a cui si ispira?
«Credo di essere stata influenzata molto dalla poesia e dalle ballate scozzesi che da bambina ascoltavo spesso. Ma anche da Joyce, Virginia Woolf e D.H. Lawrence, le cui cadenze e ritmi musicali emergono dal mio inconscio. Per me la scrittura è una serie di stanze che costruisci e poi butti giù, il che siavvicina al teatro moderno con la rottura della quarta parete. E talvolta anch’io mi rivolgo direttamente al lettore».
La sua è una trilogia, può anticiparci qualcosa della terza parte?
«Si intitolaThe Green Lady e completerà il ciclo tornando indietro nel tempo dove recupero le mie antenate femminili e anche alcuni personaggi storici come Mary Neal, la suffragetta che educò al canto e alla danza le ragazze povere che lavoravano nelle fabbriche londinesi, proprio accanto alla mia scuola, in The Green Lady Lane.
Quel vicolo è stato teatro di molte leggende e io l’ho trasformato in un deposito di storie di fantasmi che intrecciano passato e presente. Nel libro la storia di mia nonna si sovrappone con quella di Mary Neal o di Margaret Rutherford, l’attrice che interpretò Miss Marple».
Un’ultima domanda: ma perché vive su una chiatta sul Tamigi?
«Sono otto anni che vivo di fronte a una riserva naturale che attira martin pescatori e garzette, a volte sul prato si aggirano i cervi! Trovo che essere molto vicini alla natura, in particolare all’acqua, favorisca l’immaginazione. E anche vivere in modo semplice, con poche cose: non puoi scrivere o creare in mezzo alla confusione».