la Repubblica, 4 settembre 2022
Tutti in piazza per la fabbrica di motori
Se non ci fosse da piangere, il paradosso farebbe sorridere: mentre l’Italia si appresta ad affrontare la crisi energetica globale affidandosi ai rigassificatori, un gruppo industriale che vanta la leadership mondiale nel trasporto di gas liquido e nella tecnologia di rigassificazione decide di abbandonare l’Italia, chiudere uno stabilimento storico a ridosso di uno dei porti principali del Mediterraneo e mandare a casa 451 dipendenti, più grosso modo altrettanti tra indotto e appalti.
È per dire un “no” corale all’ennesima fuga dall’Italia di una grande multinazionale – in questo caso la finlandese Wärtsilä, tra i principale produttori mondiali di propulsori navali, che nel 1997 rilevò da Finmeccanica la gloriosa Grandi Motori che l’intera città di Trieste è scesa in strada, ieri, con una partecipazione anche superiore ai tristemente celebri cortei anti Green Pass dello scorso anno, in pieno caos pandemico. Dodicimila persone secondo la questura, quindicimila secondo i sindacati. Tanti. E soprattutto, non solamente i “soliti”. Perché accanto ai lavoratori – con una rara dimostrazione di unità sindacale che ha visto sfilare assieme dall’Usb all’Ugl, oltre che Cgil-Cisl-Uil – in piazza dell’Unità c’erano la Confindustria, l’autorità portuale, i negozianti, la Camera di Commercio, gli artigiani, il sindaco Dipiazza, il presidente della Regione Fedriga (mentre il ministro del Lavoro Orlando si è limitato al presidio). E financo il vescovo.
In corteo si chiacchiera, si ragiona, si condividono le preoccupazioni: quelle private («Ho 53 anni, se mi licenziano non mi prende più nessuno») e quelle collettive («Quella fabbrica è un patrimonio della città, non può chiudere»). E si scandiscono slogan. Il più gettonato, secco, «Wärtsilä Italia non si tocca, la difenderemo con la lotta».
Il problema, per dirla con un eufemismo, è che la strada è tutta in salita. Perché i finlandesi, che l’addio a Trieste l’hanno annunciato a luglio, hanno già apparecchiato tutto: nello stabilimento di San Dorligo della Valle (a ridosso del confine sloveno) la produzione è già ferma. E in Finlandia ce n’è uno nuovo di zecca, a quel che si dice finanziato generosamente dal governo di Helsinki, che aspetta soltanto di cominciare a lavorare. I corsi di formazione per i futuri dipendenti della fabbrica di Vaasa, sul Mar Baltico, sono già in fase avanzata. La proprietà ha anche mandato in trasferta nel nuovo sito alcuni tra dirigenti e tecnici triestini, perché un conto sono i macchinari, un altro è il know-how per farli funzionare. Insomma, provarci è obbligatorio, ma all’ipotesi che Wärtsilä riveda il proprio piano industriale, in una fase di contrazione del settore, ci credono in pochi. E allora, serve un piano B.
Seppure in modo molto più sfumato, lo ha detto ieri dal palco lo stesso segretario generale della Fiom-Cgil, Michele De Palma, quando si è rivolto al governo per chiedere – ove non si riuscisse a far cambiare rotta a Wärtsilä – un intervento dello Stato, «perché in gioco non c’è soltanto il futuro di una fabbrica, ma quello dell’intero s ettore navalmeccanico italiano». Tradotto: nel Nord-Est, a Monfalcone e Marghera, ci sono due mega-cantieri navali della Fincantieri che proprio da Trieste ricevono i propulsori. Emigrati i motori, che ne sarà del resto della filiera?
Ecco perché l’idea che comincia a farsi strada, benché finora tra dubbi e cautele, è di garantire un salvataggio pubblico allo stabilimento triestino, ritenuto non a torto un impianto strategico. Come, con chi, con quali brevetti e quali committenze, sono interrogativi cruciali che ancora non hanno risposta. Ma la questione esiste, e va ben aldilà del destino di 451 persone. Insomma, non è una questione che si può risolvere con gli ammortizzatori sociali o un generico piano di reindustrilizzazione.
Del resto, non è un caso se la fabbrica di motori è nata proprio qui, in punta all’Adriatico. Il primo a intuirne la necessità, quando ancora c’era l’Impero Asburgico, fu l’industriale Georg Strudthoff, che per lo scalo di Trieste – il principale dell’Austria- Ungheria – volle la Fabbrica Macchine Sant’Andrea. Era il 1857. Da allora lo stabilimento è stato spostato, ingrandito, ha cambiato nomi, proprietari e passaporto, ma non la sua missione: che producesse per mercantili, piroscafi, navi da crociera o da guerra, sempre motori ha sfornato. E sempre come tassello cruciale del luogo di transito per eccellenza, il porto di Trieste, quello che ancora oggi carica e scarica merci per l’Austria, la Germania sud-orientale, la Slovacchia, la Slovenia e l’Ungheria.
Perché i padroni cambiano, ma la geografia no.