la Repubblica, 4 settembre 2022
Intervista a Flavia Pennetta
Trovare le più intime priorità. Decidere gli inediti confini da valicare. I giorni di fine estate spingono a nuovi propositi e inducono a scelte esistenziali. Non sempre riusciamo a portarle a compimento. Anche perché implicano metamorfosi a cui non sempre siamo preparati. Anche Flavia Pennetta, la prima tennista italiana nella top ten mondiale, si ritrovò tra agosto e settembre 2015 alle prese con una scelta esistenziale. Una decisione che, di lì a poco, la condusse alla vittoria agli Us Open: il culmine per la sua carriera e un momento storico per il tennis italiano.
Pennetta, all’inizio di quell’estate neppure poteva immaginare cosa avrebbe vissuto. A Wimbledon alla fine di giugno venne eliminata al primo turno.
Come ricorda quei giorni?
«Era un anno particolare e quella sconfitta mi lasciò molto amaro in bocca. Ricordo la conferenza stampa successiva a quella partita. Mi misi a piangere».
Andò qualche giorno a Brindisi a riposarsi dai genitori. Ma il peggio, e il meglio, doveva ancora arrivare. Ai primi di agosto andò a Toronto, perse al secondo turno da Serena Williams. Poi la settimana dopo a Cincinnati come andò?
«Ero lì con il mio fisioterapista e il mio psicologo e parlavamo molto della situazione che stavo affrontando, del fatto che avevo dei momenti in cui volevo stare sul campo e dei momenti in cui volevo stare da un’altra parte».
Cosa succedeva?
«Volevo smettere, ma avevo paura di quello che sarebbe venuto dopo.
Lasciare ciò che avevo fatto tutta la vita. Non sapevo cosa mi aspettasse.
Sono nata giocando a tennis e l’avevo fatto per trent’anni. Però avevo tanti dolori fisici: alla spalla, al gomito, al piede».
E poi aveva incontrato Fabio Fognini.
«Eh sì, una persona con cui stavo bene. Avevo già un’età avanzata e il mio desiderio era di avere una famiglia, ma per farlo avrei dovuto costruire qualcosa. Non è una cosa istantanea, non succede che finisci di giocare, ti sposi e fai un figlio. Non è cosi».
Sta il fatto che anche a quel torneo perse al secondo turno.
Dove era quando prese la decisione di smettere?
«A Cincinnati, eravamo in una saletta oscura, in una di queste stanze con i lettini dei massaggiatori. Io ero lì con il mio psicologo, il mio massaggiatore, il mio allenatore, c’era anche Fabio, eravamo lì che stavamo ridendo e scherzando. Ho aspettato un momento di silenzio e allora ho detto: “Ragazzi ho deciso, Basta”».
E loro?
«Mi guardarono come se non avessero capito. Allora glielo ho ripetuto: “Ho deciso, Basta, mi fermo. A fine anno smetto”. E così fu».
Quella decisione l’ha liberò psicologicamente?
«Moltissimo. Ma non in quel momento».
Cosa fece dopo Cincinnati?
«Andai a giocare al torneo di New Haven a due ore da New York. Giocaischifosamente. Sugli spalti c’erano tutti: il mio allenatore, il mio fisioterapista, lo psicologo, il mio fidanzato e l’allenatore del mio fidanzato. Erano tutti là. Mi sentivo in colpa per loro».
Anche lì sconfitta al primo turno.
Come a Wimbledon. Sembrava davvero un’estate terribile. E invece, proprio nel bel mezzo di quella disperazione, arrivò New York, uno dei quattro tornei più importanti. Gli Us Open. Cosa fece i primi giorni?
«Niente tennis. Me ne andai per Central Park in bicicletta. In giro per la città a passeggiare. Poi chiamai i miei genitori, dissi loro della decisione, sarebbe stato il mio ultimo torneo importante. E quella chiamata mi liberò da tutto quanto».
E i suoi?
«Mio padre disse: “Ne parliamo quando torni”. Mia madre invece fu più concreta: “Visto che è l’ultimo, giocalo bene!”»
E così fu. Ma cosa successe durante quel torneo? Come recuperò tutta quella forza e calma che sembrava aver perduto?
«Penso di aver acquisito, partita dopo partita, una sensazione di benessere in campo che non avevo mai avuto. Riuscivo a vedere ciò che dovevo fare. Ero molto lucida».
Vinse tutte le partite. Ma forse la più difficile fu contro la Kvitova ai quarti. La sua avversaria aveva vinto due volte Wimbledon. Fu lì il clic?
«È stata una partita importante per me perché l’ho sempre accusata tantissimo. Lei aveva un tipo di gioco che mi stordiva ed entrai in campoanche poco convinta di poterla battere».
E invece vinse. Cosa faceva dopo ogni vittoria?
«Andavo sempre in un ristorante asiatico in cui, a vederlo da fuori, nessuno sarebbe mai entrato. Si mangiava benissimo. Il proprietario era giapponese sposato con una cinese di origine thailandese».
Un portafortuna. E cosa mangiava?
«Una zuppa thailandese, la tom yum. Super piccante che ti apre fino al cervello».
Come passò la notte prima della finale?
«Malissimo. La sera a cena il mio allenatore e il fisioterapista bevevano vino rosso e io piangevo perché non volevo giocare. Mi dicevo che non ce l’avrei fatta e quelli ridevano. Mi venne la paura di non farcela».
La finale fu contro la sua amica Roberta Vinci che in semifinale aveva battuto Serena Williams. Lei vinse. Al termine, quando era sulla sediolina in attesa di essere chiamata alla cerimonia di premiazione, cosa provò?
«Ah, non ero felice, ero proprio appagata. Ecco avevo fatto tutto quello che dovevo fare, ero a posto, ero proprio in pace, avevo una pace e tranquillità stupende».
Quel giorno non versò neppure una lacrima di gioia. E ora cosa prova quando pensa a quell’estate?
«È bellissimo quando vedo quelle scene, quando ripenso a quei giorni.
Ho sempre la pelle d’oca e finisce sempre che mi metto a piangere.
Non riesco proprio a fermarmi.
Anche adesso».