la Repubblica, 4 settembre 2022
Confessioni di un cecchino
Il momento migliore per sparare è appena dopo il sorgere del sole.
Nelle due ore tra l’alba e il primo tepore mattutino le condizioni sono perfette. «Perché non c’è vento, la luce ha la giusta intensità e la parabola del proiettile segue perfettamente i miei calcoli». In quel paio d’ore, il professore di matematica e fisica Mykola Voronin entra in servizio. Non insegna più, uccide da lontano.
Cecchino nel Donbass. Uno dei più letali, tra l’alto. «Ingaggio delle guerre personali con i tiratori scelti che combattono dall’altra parte coi russi. Loro sono morti, io sono ancora qui…».
Nel 2015 ha imbracciato un Remington 700 a canna rigata e otturatore girevole, che chiama Arlin. Nella vita di prima il professor Voronin, oggi 42 enne, era il contrario di un killer. Docente di scuola media, pacifista ed ecologista. Capelli lunghi, la custodia della chitarra sempre a tracolla, cantava e accarezzava la pancia di sua moglie incinta. Non alzava un dito contro nessuno, al massimo ne alzava due, l’indice e il medio, nel segno della pace. Poi, un giorno, le sue certezze sono state inghiottite da un abisso. Ne è uscito stravolto, assetato di vendetta, ferino. La sua storia nel 2021 è diventata il soggetto di un film, “Sniper: The White Raven”, il Corvo Bianco, diretto da Marian Bushan.
«Mi è piaciuto, è ben fatto e autentico». Il protagonista è un placido professore di fisica a cui i separatisti del Donbass uccidono la moglie e il figlio che la donna portava in grembo.
Voronin, è andata così?
«Non posso rivelare i dettagli. Posso dire una cosa, però: mi sto vendicando per due persone. E la realtà di quel che mi è successo è anche peggio di come è stata raccontata nel film».
Cosa ci può essere di peggio?
«Essere torturati. Fanno alla gente cose difficili da sopportare ma anche solo da immaginare. Era la primavera del 2014, vivevamo vicino al fronte dei separatisti. Da insegnante pacifista mi sono trasformato in cecchino delle forze armate ucraine».
Chi torturava? I separatisti o i miliziani russi?
«Entrambi».
Da allora è più stato dietro una cattedra?
«No. E mi manca tanto insegnare, quando vinceremo questa guerra
tornerò alla mia scuola media, spero».
La vincerete? La situazione sembra ferma, soprattutto in Donbass pare di rivivere lo stallo del fronte che caratterizzò per mesi e mesi la Prima Guerra Mondiale.
«La situazione è complessa, molto di più rispetto all’invasione del 2014. All’inizio di febbraio le nostre forze non erano pronte, c’era gran confusione. Ora invece siamo in controllo, i russi si stanno lentamente ritirando da alcune posizioni. Trionferemo, ma non aspettatevi una cosa rapida».
Anche nella Prima Guerra si fece ricorso ai tiratori scelti. Lo stesso termine “cecchino” viene da “Cecco Beppe”, il soprannome dell’imperatore d’Austria. Perché ha scelto questa, tra le tante specialità militari?
«Dopo quel che mi è accaduto, passavo notti insonni a pensare.
Non ero un soldato, non sapevo niente di tecniche d’assalto.
Riflettevo su come poter sfruttare le conoscenze e gli studi in matematica e fisica per eliminare ilnemico e ho realizzato che tali nozioni potevano essere utili nella balistica e nel tiro a lunga distanza. Quindi nel 2015 mi sono presentato a un battaglione, dicendo di voler fare il cecchino».
Reazione?
«Si sono messi a ridere. Come facciamo a fidarci di te?, mi dicevano. Adesso non ride più nessuno».
Come sfrutta le sueconoscenze?
«Per sparare da lontano non è sufficiente calcolare la distanza, devi considerare anche la velocità del vento, l’angolo di incidenza, devi saper usare il telemetro e il gps, devi mettere tutto insieme e fare una predizione su dove si troverà il proiettile uno-due secondi dopo aver premuto il grilletto. Contemporaneamente, devi anche prevedere come si muoverà il nemico in quel breve lasso di tempo. Capite, ci sono un bel pà di calcoli da fare… a dire la verità, il tiro a 700-800 metri assomiglia più a un’opera d’arte che a un prodotto della scienza».
E la fisica?
«Aiuta tantissimo, soprattutto per uccidere più nemici con un proiettile solo».
Nel film il protagonista ci riesce.
È capace anche lei?
«Diciamo che conoscendo elementi di fisica, matematica e chimica degli esplosivi, è possibile… Dopodiché, prima di esplodere un colpo, ogni volta sussurro questa frase mentre guardo dentro il mirino: Sono figlio di questa terra, guidi il Signore la mia mano per eliminare tutti i nemici di questa terra»
Quanti soldati ha ucciso, lo può dire?
«No. E non rivelo nemmeno dove mi trovo adesso, né particolari della mia famiglia. Mi danno la caccia, la mia incolumità è a rischio».
Cosa prova quando colpisce l’obiettivo?
«Sento il rinculo del fucile. E basta».
Nessun rimorso?
«Dopo quello che fanno? Proprio no».
Com’è una sua giornata di “lavoro”?
«Mi alzo alle tre di notte. Mi preparo e raggiungo la posizione alle cinque e mezzo. Mi camuffo in mezzo alla sterpaglia. Quando il sole sorge è il momento migliore per sparare. Quella finestra dura due, al massimo tre ore. Poi mi sposto, torno alla base, mi riposo».
Quante volte spara al giorno?
«Dipende. A volte neanche un colpo, altri giorni si crea quella che chiamiamo ‘sniper terror’, una situazione in cui ci troviamo a tirare sui gruppi di ricognitori.
Possiamo eliminarli uno per uno.
Avere un cecchino sulla linea del fronte ha un grande impatto, terrorizza i nemici. A me hanno sparato tante volte, senza mai colpirmi».
Come individua gli obiettivi?
«Le informazioni provengono da commilitoni, da civili, dai partigiani nelle zone occupate. C’è una rete che mi consente di essere così letale. E poi, ovviamente, utilizzo le mappe sul telefonino, app per fare i calcoli e le app speciali che ci fornisce il nostro esercito».
Parla con un soldato, eppure era un pacifista convinto. Ha ancora senso per lei il pacifismo inteso come valore?
«Certo. Io sono ancora lo stesso vecchio pacificatore di prima. Solo che ora cerco di portare la pace in un modo leggermente diverso…».