La Stampa, 4 settembre 2022
Tutti gli uomini della Meloni
Per capire come si sta componendo la rete che con molta probabilità accompagnerà Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, occorre scorgere le mosse dei suoi fedelissimi. Quelle di Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera e marito della sorella. Quelle di Guido Crosetto, fondatore del partito e a capo dell’associazione italiana dei produttori di armi. E quelle di Adolfo Urso, già ministro ai tempi di Alleanza Nazionale e silenzioso presidente del Copasir, il comitato parlamentare per i servizi segreti. Dalle parti di Fratelli d’Italia – e non solo – c’è la convinzione che il voto del 25 settembre sarà un successo migliore delle attese. Dunque è ora di accreditarsi, costruire relazioni, iniziare a ragionare come presentarsi di fronte al capo dello Stato con le idee chiare, quando il tempo delle decisioni arriverà e il tempo sarà poco. Raccontano i ben informati che Urso questa settimana ha in programma un viaggio a Washington. In agenda – lo confermano fonti americane – ha incontri con membri repubblicani del Congresso, fondazioni politiche, rappresentanti dell’Amministrazione. Il 19 agosto, mentre Roma consumava gli ultimi pomeriggi pigri del Ferragosto, Urso ha ricevuto a Roma sei senatori americani membri di commissioni decisive del congresso: Difesa, Energia, Intelligence. Crosetto sta curando i rapporti con il mondo della finanza e ha preparato il terreno per un incontro nella City dopo il 25 settembre. Lollobrigida è concentrato sulla politica. Con discrezione, è a lui che la leader ha chiesto di essere presente al discorso di Mario Draghi a Rimini, colui che in giro per le cancellerie spiega di dare fiducia a colei che (se in sondaggi non sbagliano) sarà la prima capa di governo della storia repubblicana. «Ci attendiamo che Urso ci confermi la continuità istituzionale dell’Italia», fa sapere una delle fonti che incontrerà il presidente del Copasir a Washington. A parole, e sulla base delle informazioni raccolte, l’intenzione è questa, anche se molto dipenderà dai rapporti di forza che usciranno dalle urne con Lega e Forza Italia, sulla cui ferma fedeltà atlantica fuori dall’Italia c’è chi avanza più di un dubbio.
Benché sia presto per dare per certa la scelta delle caselle, con l’aiuto di alcune fonti incrociate si possono avanzare però ipotesi credibili. Al governo cambierà tutto, ed è inevitabile sia così vista la natura istituzionale del governo Draghi. Salvo forse per un nome: Roberto Cingolani. Il fisico pugliese, già patron dell’Istituto italiano di tecnologia e capo della ricerca di Leonardo potrebbe restare al suo posto, per almeno due ragioni. La prima: la sua conferma servirebbe a rassicurare l’Europa sulla continuità della politica energetica italiana. La seconda: benché i Cinque Stelle ne abbiano sempre rivendicato la paternità della scelta, è l’unico esponente tecnico dell’attuale governo che è riuscito a evitare l’accusa di avere referenti politici. Nel caso di riconferma, sarebbe però affiancato da una figura nuova: un ministro dedicato al piano nazionale delle riforme. «Su questo la Meloni è molto decisa», racconta un interlocutore del governo Draghi, piuttosto lontano dalle sue convinzioni ideologiche. «Penso tutto sommato abbia ragione: se vuole ottenere qualche modifica e far marciare il piano, occorre una figura politica. Da qui in poi, oltre alle riforme, occorre dimostrare a Bruxelles che i soldi sono ben spesi».
Salvini e Berlusconi rivendicheranno posti, dunque è difficile immaginare una lista precisa dei ministri. Ma si possono dare per certe alcune indicazioni. Meloni ha già fatto sapere al Quirinale di essere disposta alla «massima collaborazione istituzionale» su quattro nomi, quelli sui quali il Capo dello Stato ha sempre messo bocca: Interni, Esteri, Difesa e Tesoro. Per quest’ultima casella sarebbero già state scartate le ipotesi di tre ex: Giulio Tremonti (ricorda troppo l’esperienza del 2011), Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli (indisponibili). Sembra fuori gioco anche il membro del board della Banca centrale europea Fabio Panetta, che ambisce alla successione a Ignazio Visco alla Banca d’Italia. Il nome più accreditato in questo momento è quello di Luigi Buttiglione, già funzionario di via Nazionale e poi della banca di investimento Brevan Howard. Consigliato alla Meloni da Panetta, gode di una discreta fama nel mondo accademico. Qualche anno fa – correva il 2014 – firmò un articolo con l’economista italiana Lucrezia Reichlin e il capo economista di Francoforte, l’ex governatore della Banca d’Irlanda Philip Lane, molto stimato da Draghi. «Non c’è nulla di anomalo nell’avvalersi di alcune figure con profilo più tecnico che politico», spiega Giovanbattista Fazzolari, senatore del partito e responsabile del programma. A dar retta alle voci di palazzo, Fazzolari è in competizione con Urso per la poltrona di sottosegretario alla presidenza, se a quest’ultimo non verrà assegnato un ministero di peso. «Tenuto conto delle indicazioni del capo dello Stato, credo ci sarà spazio anche per qualche spacchettamento di ministeri», aggiunge una fonte della Lega. Fra le ipotesi c’è quella di ricostituire il ministero delle Finanze, dove è in buona posizione l’ex sottosegretario di Alleanza Nazionale Maurizio Leo.
Fatto il governo verrà il momento delle nomine. Il primo passo saranno i massimi dirigenti dei ministeri: entro sessanta giorni dall’insediamento la legge consente al nuovo governo di cambiare il direttore generale, il capo dipartimento del Tesoro e il Ragioniere generale dello Stato. Dei tre attualmente in carica (Alessandro Rivera, Fabrizia Lapecorella e Biagio Mazzotta) quello meno in bilico è l’ultimo. Cambieranno quasi certamente i vertici dei servizi segreti (al Dis ora c’è Elisabetta Belloni), mentre potrebbe essere confermato in un ruolo di vertice l’ex capo della Polizia e attuale sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli. A gennaio scadono i vertici dell’Agenzia delle Entrate (Ernesto Ruffini) e quello delle Dogane (Marcello Minenna): entrambi verranno sostituiti. Poi, con la primavera, verrà il momento della grande abbuffata delle partecipate pubbliche. Anche in questo caso – nonostante manchi qualche mese – nei palazzi fioriscono le ipotesi. Quelle sulle conferme: Claudio Descalzi all’Eni (molto apprezzato al Quirinale nonostante le inchieste che lo hanno lambito), Stefano Donnarumma a Terna, Pierroberto Folgiero, l’uomo scelto da Draghi per porre fine alla monarchia pluridecennale di Giuseppe Bono a Fincantieri e Bernardo Mattarella (nipote del Presidente) a Invitalia. Matteo Del Fante potrebbe spostarsi da Poste a Enel, dove volge al termine la lunga stagione di Francesco Starace. È quasi certa la sostituzione dell’ex numero uno di Unicredit Alessandro Profumo alla guida di Leonardo, scelto per la prima volta dal governo Renzi. Infine c’è la potente poltrona della Cassa depositi e prestiti, la holding pubblica che possiede alcune fra le più importanti partecipazioni dello Stato (da Autostrade a Tim), e da cui passerà la decisione sulla creazione di una rete unica pubblica di telecomunicazioni. L’ex vicepresidente della Banca europea degli investimenti Dario Scannapieco – molto legato a Draghi – è disponibile alla riconferma, ma a Palazzo Chigi in pochi credono avverrà.—