ItaliaOggi, 3 settembre 2022
Orsi&Tori
Titolo del capitolo: Debito pubblico rovina nazionale. Autore: Guido Carli, nel libro Pensieri di un ex-governatore, al quale ebbi l’onore di collaborare. Leggete, signori candidati politici e signori economisti, questa storica lezione, nonostante gli scenari e le regole siano profondamente cambiate:
“La decisione di escludere l’Italia dai consulti in materia monetaria ai quali partecipano i cinque grandi fu assunta il primo gennaio 1981. In quel giorno, nell’indifferenza generale, fu annunciato che i diritti speciali di prelievo – la moneta astratta nella quale si esprimono le operazioni del Fondo monetario internazionale – sarebbero consistiti in un paniere di monete comprendente il 42% di dollari, il 19% di marchi, il 13% di yen, il 13% di sterline, il 13% di franchi francesi.
La conversione dei diritti speciali di prelievo nelle singole
monete, lire, fiorini, franchi belgi ecc. si sarebbe effettuata sulla base del cambio di ciascuna di esse con le cinque monete contenute nel paniere alle quali sarebbero stati attribuiti i pesi sopra indicati.
Da circa quattro anni, i rapporti di cambio fra le principali monete sono determinati dai trasferimenti di capitali. Gli Stati Uniti sono divenuti il maggiore importatore netto di capitali privati; il Giappone è diventato il maggiore esportatore netto di capitali privati; la Germania segue. I rapporti di cambio fra le monete comprese nello Sme (sistema monetario europeo, ndr) e il dollaro degli Stati Uniti sono determinati in misura preponderante dal rapporto di cambio fra marco e dollaro, rapporto che subisce le conseguenze dei trasferimenti di capitali dalla Germania verso gli Stati Uniti e viceversa.
Rapporti di cambio determinati da trasferimenti di capitali si sono dissociati delle parità dei poteri d’acquisto delle singole monete. Ne è derivata la sopravvalutazione del dollaro, la perdita di competitività delle merci americane, il disavanzo della bilancia dei pagamenti correnti degli Stati Uniti.
Essendo i rapporti di cambio fra queste monete determinati da movimenti di capitali privati ed essendo questi il riflesso dei differenziali di tassi di interesse, la concertazione non poteva non vertere sulle politiche condotte da tre paesi più direttamente esposti alle conseguenze dei movimenti di capitali internazionali: Stati Uniti, Giappone, Germania. In linea di fatto esiste un direttorio mondiale, ma non è un direttorio di cinque paesi, è un direttorio di tre.
Il rammarico del governo italiano per l’esclusione dalla concertazione delle politiche monetarie che incidono sugli scambi internazionali ai quali tutti i paesi del mondo sono ugualmente interessati è fondato ed è auspicabile che prima o poi conduca a una riconsiderazione della composizione del paniere che costituisce i diritti speciali di prelievo. Qualcuno potrebbe obiettare che l’Italia ha scarso titolo ad una simile partecipazione, essendo il paese nel quale i movimenti di capitali si reprimono associando alle carceri giudiziarie un portiere di una squadra di calcio sorpreso nell’atto di attraversare la linea di confine recando con sé cinquemila dollari.
D’altra parte, il rammarico della autorità italiane per l’esclusione appare condivisibile, ma l’impegno posto dai mezzi di informazione per convincere gli italiani che i provvedimenti assunti giovedì scorso dal governo dipendono da quella esclusione [16.01.86, Titolo del Corsera: Torna l’emergenza per difendere la lira- stretta creditizia contro la speculazione, salgono i tassi sui bot – Ripristinati i massimali sugli impieghi bancari….] si situa ai limiti del risibile. Così facendo, si mostra di credere poco nella capacità di discernimento degli italiani.
Quei provvedimenti traggono origine da cause che sono in Italia e soltanto in Italia e la principale è il peso dello stock del debito pubblico, la rapidità con la quale aumenta e la convinzione che ciò è ineluttabile quando il Parlamento non esercita i poteri dei quali dispone per restringere il disavanzo statale.
L’esperienza storica mostra che un volume esorbitante di debito pubblico prima o poi sviluppa tensioni indipendentemente dalla qualità dei titoli dei quali si compone. Paradossalmente, i titoli a lungo termine possono divenire causa di espansione monetaria più di quelli a breve, quando i detentori decidono di sbarazzarsene con il solo mezzo disponibile, quello di alienarli e quando le autorità monetarie intervengono per sostenerne i costi. In queste condizioni le autorità non hanno alternativa, ad eccezione di quella di innalzare i tassi di interesse e, quando vezzeggiano la pubblica opinione sussurrando l’imminenza di un loro calo, a sé medesime e soltanto a sé medesime debbono attribuire le cause di sconvolgimenti.
Quando la creazione monetaria da parte delle banche centrali alimenta un’espansione del credito in misura eccedente a quella desiderata, l’istituzione dei massimali sugli impieghi rientra nella panoplia [cioè assortimento estremamente vario e pittoresco] degli strumenti di cui quelle banche dispongono. Che simili provvedimenti distorcano la concorrenza fra le banche e che confliggano con l’obiettivo di un suo aumento non è contestabile. Ma il ricorrervi può palesarsi come il solo strumento capace di contenere con immediatezza fenomeni espansivi del credito bancario giudicati in contrasto con il mantenimento di rapporti fra credito, moneta e reddito entro limiti non inflazionistici. Nel caso nostro il massimale non è stato esteso agli impieghi in valuta.
Meno condivisibili appaiono le invettive contro gli speculatori. Quando un dirigente di azienda ha larghezza di liquidità e può provvedersene in gran copia, non si comporta forse secondo i canoni che presiedono o debbono presiedere alla buona amministrazione, se estingue debiti verso creditori interni ed esterni? Merita davvero la qualificazione spregiativa di speculatore?
L’esultanza con la quale è stata accolta la notizia che la Borsa Valori ha reagito il venerdì ai provvedimenti assunti dalle autorità il giovedì con l’innalzamento delle quotazioni dei titoli azionari non appare fondata. Dimostra che i provvedimenti non hanno inciso sulla psicologia di chi compra azioni oggi, perché i prezzi sono cresciuti ieri e dunque cresceranno domani. La circostanza che chi compra azioni, più che sapere che cosa compra, sa che cosa non compra, sa che non compra titoli di Stato, è lungi dell’essere rassicurante. La conclusione è che vi è troppo danaro in giro e, come sempre accade quando ciò si verifica, è difficile impedire che prima o poi venga speso in modi che non piacciono alle autorità.
L’esiguità dei risultati raggiunti dalla consultazione dei cinque grandi lenisce il patimento per la nostra mancata partecipazione, ma conferma l’avventatezza dei tentativi di spiegare i provvedimenti del giovedì in termini di reazione a decisioni nelle quali non abbiamo concorso. Agli anziani, come io sono, spiace constatare che il vizio di imputare le cause dei nostri guai alle democrazie plutocratiche resiste tenacemente.
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Oggi la lira non esiste più, la Banca d’Italia non batte moneta, l’euro è rappresentativo delle economie di tutti i paesi della Ue, che includono la forte Germania. Quindi il contorno in cui si colloca il perentorio avviso di Carli, ben 36 anni fa, potrebbe sembrare arcaico. Invece le sue parole su un super indebitamento pubblico giustificano pienamente le scelte di non fare altri scostamenti di bilancio deciso dal governo presieduto da uno degli allievi migliori di Carli, che non a caso, da ministro del Tesoro, nominò Mario Draghi direttore generale dello stesso.
Non ulteriore scostamento per non provocare una crisi ai titoli di stato italiani, per non veder salire lo spread alle stelle, per non far entrare l’Italia in un loop non gestibile neppure dalla Ue, dove, non va dimenticato, ci sono i cosiddetti paesi frugali che non aspettano altro che l’occasione per ridimensionare la Repubblica italiana.
Se poi si tiene conto che quasi tutti gli analisti prevedono inflazione e recessione e JP Morgan per il quarto trimestre prevede per l’area euro un -2%, con un -2,5% in Francia e Germania e un -3% per l’Italia. E aggiunge: i problemi politici dell’Italia, il suo alto indebitamento potrebbero innescare forte nervosismo nei mercati obbligazionari europei, mettendo il Bel Paese sul banco degli accusati.
Ma le accuse degli altri paesi poco contano rispetto alla situazione in cui l’Italia verrebbe materialmente a trovarsi. Il governo Draghi era riuscito a far crescere l’Italia dopo le conseguenze del Covid a una percentuale seconda solo alla Germania. Da virtuosa, quindi, l’Italia rischia di diventare la pecora nera dell’Europa. E quindi, dopo aver ottenuto più capitali di tutti gli altri paesi con il Pnrr, rischia di rimanere esclusa da altri contributi.
L’Europa ha una potenza di fuoco notevole, poiché, per esempio, del fondo straordinario di 807 miliardi messo insieme per dare prestiti e sovvenzioni per il recupero dalla pandemia è stato finora utilizzato solo il 15%. Ci sono quindi fondi che potrebbero essere usati per contenere la recessione e rilanciare lo sviluppo. Ma quei fondi occorre meritarseli e non essere l’Italia considerata, appunto, come la pecora nera dell’Europa che con il suo debito enorme destabilizza i mercati.
Il consiglio implicito di Carli era non solo quello di non fare altri scostamenti ma di ridurre il debito in essere. Il Tagliadebito è il tormento di chi legge queste pagine, ma se non bastassero le motivazioni perfino ovvie che l’Italia deve dimostra di voler essere virtuosa, specialmente essendo quasi impossibile che il prossimo governo che emergerà dalle elezioni possa contare sulla competenza e la credibilità personale di Draghi. Quindi non è più tempo di altri indugi: le ricette per tagliare il debito sono arcinote, ma l’ampio dibattito aperto da ItaliaOggi fra i massimi esponenti del paese continua ogni giorno a evidenziare che il risparmio degli italiani non si è fermato un momento in questi ultimi 10 anni. Come ha segnalato il capo del sindacato dei bancari, Lando Sileoni, nel decennio il risparmio è cresciuto del 50% toccando ora i 5.256 miliardi. Di essi, come ripetutamente scritto da ItaliaOggi, il 75% viene investito all’estero. Avete per caso letto che nei programmi di tutti i partiti ci sia un progetto per far rientrare in investimenti italiani questo enorme risorsa del paese? Zero assoluto. Eppure, dalla creazione di un vero mercato dei capitali in Italia passerebbe direttamente la possibilità che l’Italia faccia quanto ha fatto in questi ultimi due anni e cioè non solo non andare in recessione, ma dare l’esempio di una crescita superiore a quelli degli altri paesi.
L’ammonimento di Carli ai politici di 36 anni fa di non giocare con le parole, vale ancor più oggi. Qualunque sarà il governo non avrà giustificazione alcuna se 1) non taglierà il debito con le ricette validate anche dalla prima banca italiana, Intesa Sanpaolo, 2) non riporterà in Italia larga parte di quel 75% di risparmio italiano investito all’estero, perché sia investito nello sviluppo del paese attraverso un mercato dei capitali reale. (riproduzione riservata)