Il Messaggero, 3 settembre 2022
Intervista a Emmanuel Carrère
Le pubblicazioni cinematografiche, che al Lido sono sparse un po’ dappertutto, annunciano con grande evidenza l’imminente film Limonov tratto dal best seller mondiale di Emmanuel Carrère e diretto dal regista russo Kirill Serebrennikov, protagonista Ben Whishaw nel ruolo dell’avventuriero-scrittore-soldato russo cresciuto in Ucraina, produzione Widlside. Ma il grande scrittore francese, giornalista e regista, 64 anni, una madre di origine russa, la famosa storica e sovietologa Hélène Carrère d’Encausse, non è sbarcato alla Mostra per Limonov. È qui per accompagnare il documentario di Francesco Rainero Martinotti Passione Cinema, una cavalcata tra i film-capolavoro di Francia e Francia raccontati da 23 talent dei due Paesi (tra loro Fanny Ardant, Valeria Golino, Monica Bellucci, Michel Hazanavicius, Bérénice Bejo, Toni Servillo, Louis Garrel): quasi una sintesi del Festival France Cinéma che si tiene da 35 anni a Firenze, attualmente diretto da Martinotti e frequentato con entusiasmo dallo stesso Carrère.
Prima di correre a tuffarsi nel mare davanti all’Excelsior, lo scrittore ha incontrato il Messaggero.
Ha un ruolo anche lei nel progetto cinematografico su Limonov?
«No, e ignoro a che punto sia arrivata la lavorazione. So soltanto che Serebrennikov aveva iniziato le riprese in Russia, ma ha dovuto fermarsi a causa della guerra».
Ma lei è contento che il suo Limonov diventi un film, è d’accordo sui nomi del regista e del protagonista?
«Sì, perché dovrei essere contrario?».
Da alcuni suoi libri, a cominciare da L’avversario, sono stati tratti dei film. Ci sono altri progetti all’orizzonte?
«Per il momento no».
Che rapporto ha con il cinema italiano?
«Ho imparato ad amarlo da cinefilo negli anni Settanta, quando iniziai la mia carriera come critico della rivista Positif. E ho avuto la fortuna di conoscere il cinema dei giganti: Fellini, Antonioni... Ma riservavo attenzione anche ai registi considerati minori, poco conosciuti in Francia».
Di quali parla?
«Mario Monicelli, Dino Risi, Luigi Comencini. Insomma, i maestri della commedia. Tra i i mei film di culto ci sono infatti I soliti ignoti, Il Sorpasso, Una vita difficile, Lo scopone scientifico. Dopo ho avuto l’impressione che il cinema italiano diventasse un deserto. Per fortuna sono poi arrivati Nanni Moretti e Paolo Sorrentino».
Era un critico feroce, con la stroncatura sempre in canna?
«Assolutamente no. Ho avuto in prevalenza un atteggiamento amichevole perché preferivo parlare dei film che mi piacevano. Di quelli venuti male non valeva la pena di occuparsi, a meno che fossero scandalosamente brutti».
Qualcuno è convinto che il cinema, travolto dalle innovazioni tecnologiche, non abbia più la funzione di una volta o sia addirittura destinato a finire. Lei che ne pensa?
«Spero che questa diagnosi sia falsa, ma nello stesso tempo temo che abbia un fondo di verità. Il cinema è destinato ad avere un ruolo sempre più di nicchia, purtroppo».
Dopo aver diretto Tra due mondi – Ouistreham, con Juliette Binoche, ha voglia di tornare dietro la cinepresa?
«Sì, certo, ma per il momento non ho nessun film in progetto».
Dopo Yoga, un altro successo internazionale, sta scrivendo un nuovo libro?
«Per il momento no».
Batte sempre i suoi best seller al computer con un solo dito?
«Ora ho imparato ad usarne qualcuno di più».
Come fa ad affrontare temi intimi, come le sue nevrosi e le sue depressioni, usando un tono leggero, addirittura ironico?
«Cerco di rendere più semplice la vita, e di conseguenza la mia scrittura».
Tra i suoi libri, ce n’è uno a cui è più legato?
«È Vite che non sono la mia (ispirato dallo tsunami del 2004, ndr)».
Che ruolo hanno gli intellettuali come lei nel raccontare il nostro tormentato presente?
«Io non sono un intellettuale, ma un narratore. E racconto quello che vedo».
Usciremo da questi tempi difficili, è ottimista sul futuro?
«Non sono mai stato ottimista».