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 2022  settembre 03 Sabato calendario

Le confessioni di Patricia Highsmith


«La scrittura, naturalmente, sostituisce la vita che non posso vivere, che non riesco a vivere», scriveva Patricia Highsmith – scrittrice di culto texana – nel maggio del 1950. Eppure, leggendo i suoi diari, scovati sotto una pila di biancheria nella sua ultima casa, si scopre una vita di immensa ricchezza, non solo emotiva ma anche relazionale e geografica: prima di stabilirsi nel suo tetro maniero a Tegna, in Svizzera, Pat (così la chiamavano gli amici), visse in diversi luoghi europei – dall’Italia in cui ambientò il suo celebre Mr Ripley, alla Francia da cui fuggì per intoppi finanziari, all’Inghilterra dove si invaghì della moglie del suo editore – tentando invano di trovare la sua patria interiore, e scoprendo volta per volta che l’unica casa possibile per lei era dentro un libro o tra le braccia dell’amata di turno. «Io non volevo altro da lei se non il terreno per le mie avide radici», scriveva il 25 dicembre 1943, rievocando un pianto in taxi lungo la città, così simile alla scena clou di Carol di Todd Haynes, splendido adattamento del suo omonimo romanzo, storia di due donne che cercano di amarsi negli anni ’50 durante un turbolento Natale.
Dura e romantica, cinica e generosa, chiassosa e solitaria, carismatica e insicura, Pat aveva una personalità così sfaccettata che solo la scrittura sembrava integrare le diverse parti di lei. Senza la scrittura, sosteneva, sarebbe stata una serial killer, e in effetti, mentre leggiamo nel diario di lei che spiava E. R. Senn, la donna che ispirò la Carol del romanzo, ci sentiamo al cospetto di un’operazione insieme magica e sordida: quella che nasce nel limbo tra realtà e letteratura, e che basta poco a spingere da una parte o dall’altra, mutando l’incanto narrativo in un miraggio di violenza.
Pat si vergognava della dolcezza di questo suo unico romanzo d’amore, scritto febbrilmente come sotto possessione demoniaca, eppure lottò perché gli fosse concesso un lieto fine in un mercato che ancora tollerava solo amori saffici che finivano in tragedia. Forse proprio perché Carol, più di ogni altro suo libro, è un patchwork delle sue esperienze di vita, ma vale anche l’inverso: la sua stessa vita è fortemente influenzata dai romanzi, gli snodi narrativi diventano spesso snodi esistenziali, come se il vissuto fosse un mero strumento chirurgico di creazione e manipolazione letteraria.
Questa subordinazione della vita alla scrittura è tipica dei veri scrittori, che vengono da quello che Cristina Campo chiamava l’altro mondo: quel mondo che emanava i raggi rosa in cui Philip Dick leggeva rivelazioni, o gli angeli evanescenti di cui parlò Antonia Pozzi nei suoi diari (e chissà, forse anche le voci di Virginia Woolf). Pat incontrò E.R. Senn, la futura Carol, mentre come la futura Therese lavorava nel reparto giocattoli di Bloomingdale, e quando iniziò a scrivere Carol decise di non conoscerla (limitandosi a spiarla fugacemente, appunto) pur di dedicarsi solo al personaggio che aveva inventato, e non contaminarlo con la persona reale che lo aveva ispirato. All’epoca stava facendo un percorso di psicoanalisi per «curare» la sua omosessualità, percorso che al contrario la portò a scrivere quel libro, il primo romanzo lesbico della storia con un lieto fine.
Eppure questa – Pat alle prese con amori febbrili subordinati a intense trance di scrittura- è solo una delle storie possibili: una vita è fatta di tante possibili letture, e un diario è una seduta spiritica che apre un misterioso portale verso ognuna di loro. Soprattutto, leggere un diario che ripercorre una vita intera è come avere accesso al meccanismo segreto del tempo, quello che il vissuto oscura e che il ricordo opacizza. In altre parole, è il contrario di sfogliare quei libretti di una volta che traducevano i vari fotogrammi in un’immagine in movimento. Vivendo, il vero moto del tempo ci è precluso, eppure leggendo un diario lungo quanto un’esistenza possiamo scorgere i segni lentissimi, quasi immobili, di quel moto al microscopio. Tanto più in questo caso: il caso di una scrittrice estremamente nota che però all’esteriorità delle interviste e degli scambi pubblici non concedeva quasi nulla di sé. Era simile alla sua casa tetra dalle finestre strette come feritoie.
Così, leggendola dai suoi vent’anni euforici e mondani ai suoi settanta cupi e solitari, assistiamo al lento mutamento del suo rapporto con la vita: al passaggio da una scrittura esplorativa e insicura a uno stile solido, sicuro di sé e del proprio posto nel mondo, al lento evolversi di un rapporto di amore-odio con la madre reazionaria dal cui giudizio dipendeva profondamente (tenendo segreto, a lungo, il suo orientamento sessuale) a un consapevole distacco da lei, che morirà sola e smemorata in un ospizio, più attaccata ai suoi orologi preziosi che alla figlia mai compresa.
Poi l’evolversi del suo rapporto con le donne: prima casanova cinica che passava da un’amante all’altra come un corvo che saltella tra i rami, portandone addirittura più d’una al suicidio, poi martire idolatra di donne sposate che la trattano come un diversivo, infine gelosa di una solitudine impenetrabile che solo ai suoi gatti è concesso di infrangere. E poi l’alcolismo, l’amore per i bei vestiti e la diffidenza per gli esseri umani, l’ossessione per le lumache che in viaggio portava con sé stipate nel reggiseno.
Osservandola così, questa vita così fulgida e nevrotica e matrice di importante letteratura, si capisce chiaramente che le radici di cui parla-quelle che sperava attecchissero in un mondo che non sentiva suo- erano solo narrative: se come donna (indipendente, lesbica, sofferente, non disposta a compromessi) non riusciva ad attecchire nel mondo, è stata invece la scrittura a mettere radici solide nel reale. I romanzi di Pat raccontano la psiche con lucidità e intelligenza, ma nei diari c’è anche altro: l’ironia e l’autoironia, la fragilità e la depressione, il senso civico e la forza dell’allegria. E con la stessa dimestichezza con cui provava su di sé i diversi look (vestiva da uomo, ma anche da ragazza raffinata), giocando e riflettendo anzitempo sull’identità di genere («Sono immersa nelle ambiguità della natura e della filosofia – scrive a luglio del 1950- sono un ragazzo nel corpo di una ragazza») provava su di sé le diverse lingue, scriveva il diario in inglese ma anche in francese e in spagnolo e in italiano, un po’ per rendersi indecifrabile alle sue amanti ficcanaso e un po’ per spostare il suo punto di vista: se è vero che, come riteneva Wittgenstein, il linguaggio definisce la portata del nostro sguardo, passando da un lingua all’altra Pat tarava il suo sguardo e lo dilatava oltre l’orizzonte.
Di questo viaggio lungo un’esistenza io sono stata lettrice e traduttrice: ho preso la sostanza stessa di una vita, i pensieri che l’hanno composta, e l’ho trasportata altrove. Un trasloco di senso, come è sempre una traduzione, con l’attenzione maniacale di non far cadere nulla mentre questo senso viene spostato. E nel frattempo, nella mia dedizione, diventavo un po’ anch’io una delle amanti di Pat. Non di quelle suicide, né di quelle carnefici: una di quelle della parte finale della sua vita, complici e attente, affezionate. —