La Stampa, 3 settembre 2022
La fatica di amarsi su Tinder
Tinder fa dieci anni, e noi diremmo invece che ne ha cento, e che chi lo sa se gliene restano mille. Invecchia male, forse declina, di certo rallenta, sommerso non dall’odio dei perbenisti, ma da quello dei nuovisti, talvolta nudisti, che l’avevano accolto come la novità che non era, il mezzo che avrebbe messo il sesso – ed eventualmente l’amore – in tasca a tutti, belli e brutti, buoni e cattivi, presentabili e miserevoli. Quei nuovisti entusiasti, invece, da Tinder dicono ora di aver guadagnato per lo più frustrazione, rimpianto, delusione, e persino burnout, la sindrome del nostro tempo, quella di cui siamo tutti, con diverse gradazioni di consapevolezza, ammalati: l’affaticamento da stress che porta all’astenia, e che deriva da un eccesso di lavoro e di performatività, entrambi votati al chimerico obiettivo di non fallire.
"Un decennio di ricerche infruttuose”, titolava ieri il New York Times, che ha raccolto le testimonianze di giovani adulti ai quali Tinder ha devastato la vita, l’umore, la socialità, le aspettative, la fiducia nel prossimo, esponendoli peraltro a ossessionanti partner, brutto sesso poco e per niente consensuale, molestie, stalking, revenge porn, e tutte quelle più lievi ma comunque seccanti conseguenze dell’amore (della sua ricerca) che nei film di Nora Ephron erano sempre minuziosamente raccontati, ovvero le cene con i noiosi, gli amori clandestini, la solitudine, la depressione, il dissiparsi della dose di raziocinio necessaria a tenersi lontani da palestre, diete, cartomanti, astrologi, appuntamenti al buio combinati da chiunque, persino da una lontana zia perpetua secondo la quale il nipote del prete presso cui lavora e vive è l’uomo della tua vita (e sì, tu sei andata a pranzo – meglio correrli di giorno certi rischi – anche con lui). Le testimonianze raccolte dal New York Times sono tutte catastrofiche, parlano di promettenti venti-trenta-quarantenni chiusi in casa per mesi a cercare l’anima gemella fotografia con breve bio dopo fotografia con breve bio, rabbuiati e incattiviti come amministratori delegati incaricati di trovare in 24 ore un genio che riporti il bilancio aziendale almeno in pari. E poi la grande disdetta: finiti quei mesi e mesi di foga, quei ragazzi hanno sviluppato un orribile burnout, hanno chiamato l’analista, ora sono in cura, Tinder lo hanno cancellato, forse si trasferiranno in un bosco per disintossicarsi, per imparare a starne alla larga, a non ascoltare quella voce che dice: ehi, su, resta qui altri dieci minuti, scorri altre duecento foto con breve bio, magari stavolta ci azzecchi, stavolta trovi il caro amico di una sera o di una vita intera. E dire che Sean Rad, dieci anni fa, quando ideò l’App, voleva soltanto agevolare l’antichissima professione dei cercatori d’amore, raffinando ulteriormente quello che già i siti di incontri e le agenzie matrimoniali avevano raffinato, e cioè l’autocandidatura a un’appagante relazione di chi non riusciva a trovare un amante o un compagno, per mancanza di tempo, di sfacciataggine, di fortuna, di occasione. Pensò, Rad, di chiamarla Tender, ma la sua fidanzata di allora, Whitney Wolfe Herd, gli consigliò di rendere la cosa più piccante, con l’aggraziata sostituzione della e con la i. E così nacque Tinder. Il successo fu immediato, planetario, due anni dopo lei si licenziò accusando lui di averla molestata, lui respinse le accuse, lei creò la prima App di incontri, Bumble, dove a fare il primo passo sono soltanto le donne. Tre anni fa è diventata mamma di un bambino che tutti chiamano Bo’ (all’anagrafe è Bobby Lee Herd II) e ha detto: «La mia missione è porre fine alla misoginia». Lui si è sposato, è finito spesso in tribunale ma non in galera, quest’anno ha brevettato un anello che misura la saluta mentale di chi lo indossa. Su Twitter ha 8.638 seguaci, su Instagram poco più di 9mila. Tinder è attivo in 190 paesi del mondo, ed è stata scaricata più di 340 milioni di volte. A marzo, alcuni profughi ucraini l’hanno usata per chiedere aiuto e lo hanno ottenuto: hanno trovato una casa, un rifugio, qualcuno che è andato a prenderli al confine e li ha portati in Polonia, in salvo. La funzione non sempre fa l’uso.
Da questa parte dell’oceano siamo più clementi, forse perché abbiamo negli occhi il Bello, onesto, emigrato Australia che sposerebbe compaesana illibata, e sappiamo che l’amore di persona è logorante, e sappiamo che la parte più bella di una relazione è la caccia, quando tutti siamo attori, ci fingiamo chi non saremo mai, e Tinder è questo che ha prolungato, legittimato e incentivato: mettetevi sulla piazza standovene comodi in mutande. Abbiam otutti testimoniato a sviariati matrimoni di persone che su Tinder ci sono conosciute, e che erano spesso individui bizzarri, talvolta con evidenti tendenze sociopatiche, talatra irrimediabili timidi ai quali Tinder ha dato la chance che la mondanità non sempre dà a chi vuole innamorarsi: vivere a lungo in panni inventati, fingersi migliori, dirsi migliori, sentirsi accettati, godersi un’ora d’amore in assenza, come si fa con la fede. Tinder però declina sul serio, e non perché arrechi burnout, ma perché chi l’ha creato non poteva immaginare che in questi dieci anni avremmo mandato all’aria non la carnalità dell’amore ma la carnalità del corpo, che l’altro sarebbe diventato untore, confine, ostacolo, e che avremmo malsopportato la fatica, e ci saremmo appassionati succosamente alla sola cosa che non ne comporta nessuna: la solitudine.