Robinson, 3 settembre 2022
Biografia di Vincenzo Mollica raccontata da lui stesso
È una parte della storia televisiva italiana di questi anni. Aggiungerei di quella meno becera. Vincenzo Mollica compirà settant’anni il prossimo anno. Lo raggiungo telefonicamente in montagna dove si è ritirato al riparo dal grande caldo: «Qui a Bratto, nella Val Seriana, dove vengo da quarant’anni, respiro e vivo una calma che il caldo di Roma non riesce a trasmettermi. Eppure, è stata la città della mia vita, dei miei incontri più interessanti. Sai, nella decadenza fisica ti aggrappi alle cose belle e io ho avuto la fortuna di viverne parecchie. Sì, credo che per certi versi Roma,con tutti i suoi difetti, mi corrisponda».
Cosa ci trovi di speciale?
«Forse l’eterna decadenza, il fatto che la polvere dei secoli non l’abbia interamente coperta. E poi c’è una cosa che mi diceva Federico Fellini per giustificare il suo amore per Roma: “guarda il sorriso dei romani, è accogliente ma al tempo stesso sembra prenderti per il culo. Sembra dirti: ma chi sei? Non hai capito che non sei nessuno!”. È una forma di disincanto che protegge dalle illusioni».
Ne hai avute, ne hai?
«Un sano realismo provinciale mi ha messo sempre al riparo dai sogni irrealizzabili. Ho inseguito le cose possibili, non quelle impossibili».
Dove sei nato?
«A Formigine, in provincia di Modena. Madre emiliana e padre calabrese. A tre mesi con la famiglia emigrammo in Canada. Ci sono rimasto fino a sette anni. Ho ricordi bellissimi. All’inizio ci fermammo in una cittadina non distante dalle cascate del Niagara e poi a Toronto».
Tuo padre che faceva?
«Voleva specializzarsi nel più illusorio dei sentimenti: la speranza. La cosa che ricordo è il lavoro sulla comunità di italiani. Aveva fondato un piccolo giornale in lingua italiana. Credo che allora mi venne il desiderio di fare nella vita il giornalista».
Tornaste in Italia e che accadde?
«Tornammo per stabilirci in Calabria. Fu come ripiombare nel Medioevo. Motticella era anni luce da Toronto».
Ti sentisti perso, deluso?
«No, per niente. Quel piccolo paese calabro fu scuola di vita. Non ci crederai ma dovetti imparare il dialetto calabrese. Fu la terza “lingua” che si aggiunse all’inglese e all’italiano».
Lo dici come se fosse stata una conquista.
«Di cui, col tempo, sono andato fiero. All’inizio sottovalutavo certi suoni, certe inflessioni. Poi ho capito che il dialetto può essere ricchezza e non solo povertà. Non capisco chi disprezza o nasconde le proprie radici. È come sputare sul proprio nome».
Mollica fa pensare a qualcosa che avanza, che resta e che va gettato.
«Avrei potuto mettere l’accento sulla “o” ma sarebbe stato ridicolo. L’accento sulla “i” ha restituito la verità del nome, alla materia nobile da cui ha origine. Cioè il pane».
Sei restato in Calabria fino a quando?
«Fino a tutto il liceo fatto a Locri. Poi l’università e una laurea in legge. Scelsi giurisprudenza non per fare l’avvocato o il magistrato ma perché mi spiegarono che quella era la via per chi sognava il giornalismo. Ho cominciato la professione per una tv privata, poi nel 1980 approdai in Rai. Cercavano giovani per il Tg1. FuNuccio Fava ad assumermi, due giorni dopo toccò a Enrico Mentana. Eravamo ragazzi volenterosi. In Rai ho lavorato fino al febbraio del 2020. Ho fatto l’ultimo Festival di Sanremo e poi ho salutato tutti».
Ti si vedeva con Fiorello sul balconcino davanti al teatro Ariston.
«La verità è che fu Rosario a lanciare una petizione perché facessi quell’ultimo Festival».
È stato un bel rapporto quello con Fiorello.
«Bellissimo. Lui è il genio nella lampada. La strofini ed esce fuori per dare forma alla sua televisione. Io sono entrato in Rai come essere umano e ne sono uscito come un pupazzo».
Che intendi?
«Rosario mi ha reinventato come un pupazzo appunto, a cui ho prestato la voce».
Sei stato anche un personaggio di Walt Disney.
«In alcune storie di “Topolino” ero Vincenzo Paperica e facevo quello che faccio nella vita.
Lavoravo per Telepaperopoli e per il Paper sera. Sai chi ha inventato Paperica?».
No, chi?
«Giorgio Cavazzano lo ha disegnato, ma l’idea è stata di Andrea Pazienza. E Vincenzo Paperica è diventato il mio alter ego».
Hai conosciuto Pazienza?
«Benissimo e diventai amico di questo genio che non se la tirava. La nostra confidenza giunse al punto che quando stava per nascere mia figlia Caterina lui cominciò con certo anticipo a portare dei peluche. Io gli dissi ma non è un po’ troppo presto? E lui: sai, quando tua figlia aprirà gli occhi troverà attorno a sé i primi amici. Le dedicò anche alcune tavole delle storie di Zanardi: “Alla piccola e dolce Caterina” e il disegno mostrava Caterina che planava sulla terra dormendo sul dorso di un’aquila. Andrea era una sorpresa continua. Alle qualità pittoriche e grafiche univa il talento del narratore».
Anche tu te la cavi col disegno.
«Ma no! Sono uno scarabocchiatore, un disegnatore ambulante».
Sei versatile.
«Sono curioso e provo a combinare quello che mi passa per la testa, prima capire e poi fare».
È così che sono nati i tuoi romanzi?
«Romanzetti e poemetti, prego. In fondo tutta la mia vita è stata all’insegna del diminutivo».
E degli antieroi, come il protagonista della tua trilogia.
«Quella a cui ti riferisci e che uscì per Einaudi raccoglie i deliri di un barbiere vagabondo che lascia il proprio negozietto perché invaghito dalle pin up, le famose donne del sogno maschile americano. Pensa che la quarta di copertina la scrisse Daniele Del Giudice».
Lo hai conosciuto?
«La prima volta che sentii il suo nome fu Fellini a farmelo, suggerendomi di leggere Lo stadio di Wimbledon. Aveva un italiano limpido che piaceva a Federico. Poi nacque una bella amicizia che è durata fino a quando Daniele si è ammalato. Amava molto il cinema e quando ero al festival di Venezia capitava che mi raggiungesse al Lido. Si passava un po’ di tempo assieme e uno degli argomenti che in quel periodo gli piaceva affrontare era l’aviazione. Stava scrivendo Staccando l’ombra da terra che trovai, quando lo lessi, bellissimo. Ma di tutti i suoi libri ce ne è uno al quale sono particolarmente legato. Si tratta di Nel museo di Reims, un lungo racconto al quale sono affezionato e che mi riguarda».
In che senso?
«Il protagonista sta perdendo la vista e vuole vedere
per l’ultima volta un quadro che ha amato. In quelle pagine mi sono riconosciuto».
Nel senso che interpella la tua malattia?
«Uno dei miei accidenti, ossia la cecità, gli altri sono il diabete e il Parkinson. Quando queste presenze si sono affacciate nella mia vita non mi sono messo di traverso, le ho accolte senza viverle come una maledizione o una benedizione. Ho cercato di andare d’accordo con queste tre avide signore».
Senza rassegnazione?
«Senza rassegnazione. Capisco un certo stupore.
Soprattutto la cecità, per me che ho vissuto di immagini tutta la vita, poteva essere un handicap tremendo. Eppure, mi sento non dico fortunato, ma grato alla mia memoria di poterle ripensare nella nebbia in cui oggi vivo. Mi è stato di grande aiuto Andrea Camilleri che aveva la mia stessa patologia.
Ero all’inizio del mio malanno e mi disse: Vincenzo, ti consiglio un esercizio notturno. Quando perderai la vista è probabile che farai dei sogni limpidi. Ecco, ripassa con la memoria i fumetti, i quadri, i volti che ti compariranno e che ricorderai. Riempi le loro forme, non perdere la tavolozza dei colori. È un consiglio che ancora seguo. Camilleri è stato umanamente prezioso. Per me e per tanti altri una bussola con tutti i punti cardinali dentro di sé».
Con tutto quello che ti è caduto addosso come fai ad essere così sereno?
«Con l’ironia. Per me l’ironia è un salvagente che ogni giorno mi permette di affrontare tutto con serenità, mi aiuta a vivere meglio questa condizione limitante. Da quando sono afflitto da cecità mi si è ristretta la scrittura».
Che vuoi dire?
«Ho voglia di scrivere meno righe di una volta. Mi piacciono le storie raccontate in due righe. Mi viene in mente l’esempio di Sergio Tofano: due righe e una rima per raccontare il signor Bonaventura. Che so?
“Omerico non fui per poesia, ma per mancanza di diottria”. Oppure: “Quando ti viene voglia di tornar bambino fai attenzione perché la vecchiaia ti sta spiando da vicino”».
Come vivi la vecchiaia ora che sei in pensione?
«Mi considero un apprendista pensionato. La vecchiaia per me è un sussurro, un modo di entrare in una dimensione in cui tutto si attenua. È occupare un territorio tra il capire e il non capire. E anche non capire può essere di aiuto. Il sussurro fa bene perché sioppone all’urlo. A coloro che predicano a piede libero convincendoti che hanno una soluzione per ogni malanno. Si credono straordinari nel parlare di Covid e di Aristotele con la stessa competenza. E non se ne vergognano».
Stai processando la tua televisione?
«La televisione ha le sue colpe, ma allargherei il discorso agli altri media. Viviamo in un tempo di chiacchiere e di rancori».
Meglio il tuo buonismo?
«Lo so, è un’accusa ricorrente. Si dice: Mollica è stato troppo gentile, troppo buono, mai uno scontro, mai una critica. Ma io ho sempre pensato che nel mio mestiere di cronista contassero tre cose: la curiosità, la passione e la fatica. E poi, mi sono sempre occupato di ciò che mi piaceva, delle cose che ho amato fin da ragazzo. E mi ritengo fortunato di aver incrociato artisti che mi hanno regalato il loro talento. Ad alcuni di essi mi sono legato in amicizia».
Fellini ricorre spesso nella tua rievocazione.
«Ho vissuto 15 anni con lui e mi ha fatto capire molte cose. Veniva spesso alle sette di sera in via Teulada. Si presentava in redazione e io gli dicevo: Federico devo montare il servizio per il Tg1 delle otto. Mi seguiva in moviola, con l’imbarazzo del montatore. Sbirciava quello che facevo e mi correggeva: “questa frase è troppo lunga, qui fai una pausa di troppo”. Aveva il dono di divagare e insieme della sintesi. Una volta venne chiamato da Ettore Bernabei che stava preparando un progetto sulla Bibbia e Federico volle che lo accompagnassi. Arrivammo e dopo un po’ di convenevoli Bernabei gli illustrò il progetto e quando cominciò a parlare dell’episodio della Genesi gli disse che avrebbe desiderato che a filmarlo fosse proprio lui».
Fellini come reagì?
«Ringraziò con la sua vocetta seducente e poi aggiunse: lei mi chiede di fare la regia e posso anche esserne tentato, ma c’è un problema, se io faccio il regista chi fa Dio?».
Tu che rapporti hai con Dio?
«Sono un credente che cerca di andare d’accordo con lui. Qui in montagna c’è una chiesetta che si chiama Lantana e penso che sia ispiratrice di una forte spiritualità. Qualche volta mi faccio accompagnare da mia moglie, Rosa Maria. Non entro ma resto fuori da quella costruzione che si affaccia su una bellissima valle. È il mio modo di vivere la religiosità e ho la sensazione che le cose che mi circondano diventino più nitide e che i colori riempiano la mia immaginazione. Dio è in questi dettagli».