Robinson, 3 settembre 2022
Rileggere John Fante
Avevo 24 anni, mi ero appena trasferita a Roma, volevo fare la scrittrice e la sera, di ritorno dal lavoro, vagavo per le strade polverose di Los Angeles con un giovane italoamericano che aveva i miei stessi sogni, le mie stesse origini modeste, la mia stessa formazione cattolica e la mia stessa ansia di riscatto. Si chiamava Arturo Bandini ed era fuggito dal Colorado, da un padre più irascibile del mio, da una madre cattolica e devota al marito, dalle abitudini schizofreniche di una famiglia di immigrati, come la mia, per diventare uno scrittore. Mentre lui si cibava solo di arance perché costavano 5 cent la dozzina, incantata dal suo timbro irriverente, ironico e senza pudore per il pathos, io dimenticavo addirittura di mangiare.
Arturo Bandini è il più famoso fra gli alter ego di John Fante, l’autore di cui ogni ventenne con il sogno di scrivere non può che innamorarsi. Tra la metà degli anni ’ 80 e i primi 2000 la sua riscoperta letteraria mi ha permesso di conoscerlo, poi le mode sono come sempre cambiate, e forse lui è stato di nuovo un po’ trascurato. È il suo destino emergere, sparire, poi tornare: dopo l’esordio nel ’ 38 con Aspetta primavera, Bandini, il capolavoro Chiedi alla polvere del ’ 39 ( tradotto per la prima volta nel ’ 41 da Vittorini, che aveva già inserito un suo testo in Americana)e la meravigliosa raccolta di racconti
Dago Red del ’ 40, Fante non pubblicò più per 12 anni, in cui si dedicò alle sceneggiature per Hollywood.
Rileggendo i suoi libri «scritti con le viscere e per le viscere» – disse Bukowski, che della sua riscoperta fu uno dei maggiori artefici – mi sono ricordata di quel miscuglio di inadeguatezza e megalomania che affligge chiunque abbia un sogno troppo grande e rischi ogni giorno di non realizzarlo, eppure non può fare a meno di inseguirlo, a costo di schiantarsi.
Anche l’amore, a pensarci bene, è così, e quello che inChiedi alla polvere Arturo nutre per la cameriera messicana Camilla Lopez è destinato a finire male. Lei rappresenta tutto ciò da cui lui scappa, e il razzismo classista con cui la tratta è il sintomo della sua stessa marginalità, dalla quale vuole emanciparsi conquistando la gloria, il denaro, e tutte le donne possibili. Detesta lehuarachas logore con cui lei cammina, ma sogna di stringersele al petto. La contraddizione del suo amore per Camilla ricorda quella dell’immigrato di seconda generazione, che pretende di integrarsi nel nuovo mondo rinnegando le radici, ma dalla forza delle radici è dominato oltre la propria coscienza.
L’amore nasce e cresce nell’umiliazione reciproca: più Arturo offende Camilla, più è offeso da lei, più la desidera. Non la accetta per ciò che è, non all’inizio: la immagina comeuna principessa Maya per nobilitarne le origini, e perché per lui l’amore è proiezione. Tant’è che non riesce a possederla e, frustrato, la mortifica. L’incapacità di Arturo intenerisce, è un coraggioso ritratto del maschio e delle sue debolezze. Ma il vero motivo per il quale lui non sa amare Camilla è perché vive altrove, cioè nella scrittura; perfino quando sta per annegare e crede che lei sia stata ingoiata dalle onde, pensa a come raccontarlo. Eccola, l’ossessione, l’unica fede possibile, per uno che prima bestemmia il Creatore e poi tenta di scendere a patti con lui: «Dio onnipotente, mi dispiace di essere diventato ateo, ma hai mai letto Nietzsche? (…) Fai di me un grande scrittore e io tornerò alla Chiesa».
Il rapporto ( dei personaggi) di Fante con la religione genera scene esilaranti, come quando, nel racconto Chierichetto ( il primo che il suo mentore H. L. Mencken, tra i più influenti critici letterari dell’epoca, pubblicò sulla prestigiosa rivistaAmerican Mercury), un bambino riempie di inchiostro rosso la bottiglia del vino che il prete berrà durante la messa, per vendicarsi di lui. È la scrittura a farsi sangue, in questa blasfema eucarestia. O il ragazzino che nel racconto L’orgia getta acqua santa sull’ammucchiata alla quale suo padre sta partecipando. O il padre stesso, che ne Il dio di mio padre non vuole andare in chiesa e si confessa per lettera. Peccato scriva in italiano e il prete non possa capire, sebbene si chiami Bruno Ramponi.«IlPapa parla in italiano»,si
giustifica lui.
L’ultimo romanzo, Sogni di Bunker Hill,Fante – ormai cieco – lo dettò alla moglie. A volte andava a trovarli il figlio Dan, che con lui aveva un rapporto difficile, come il personaggio del padre, muratore che durante i rigidi inverni del Colorado non può lavorare, ad aprire la carriera da romanziere di Fante, nel folgorante incipit dell’esordio: «Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustato». È lui, ricomparso inFull of Life con il suo vero nome, a riparare la crepa nel pavimento che simboleggia la frattura fra John e la moglie alla prima gravidanza. La sua consacrazione è inLa confraternita dell’uva, dove si chiama Nick Molise e, ormai vecchio, soffre dello stesso diabete che affligge l’autore, quasi a suggellare l’identificazione del figlio con il padre. Quasi a significare che è stato il sentimento di rifiuto e insieme di fascinazione che John provava per lui ad accendere la sua scrittura, ad alimentarla. Quello che John aveva avuto con Nick.
Tuttavia, dopo la sua morte, Dan scrisse: «Mio padre mi stava insegnando il mestiere. Ero suo figlio, e lui mi stava mostrando come si scriveva, così come suo padre di Torricella Peligna aveva mostrato a lui, da ragazzino, come si costruiva unmuretto».