Robinson, 3 settembre 2022
La cultura secondo Eco
Elenco di opere uscite nel 1963: La cognizione del dolore (in volume) di Carlo Emilio Gadda,Fratelli d’Italiadi Alberto Arbasino, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, La tregua di Primo Levi, Libera nos a Malo di Luigi Meneghello,Marcovaldo di Italo Calvino, Pinocchio (il primo) di Carmelo Bene, 8 1/2di Federico Fellini, I mostri di Dino Risi,Il Gattopardo di Luchino Visconti, Le mani sulla città di Francesco Rosi, laStoria linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, ilDiario minimo di Umberto Eco. Nell’ottobre di quell’anno lo stesso Eco partecipò al convegno palermitano del movimento letterario che scelse di chiamarsi “Gruppo 63” e pubblicò suRinascita, il settimanale culturale del Partito Comunista Italiano, il saggio Per una indagine sulla situazione culturale che non menzionava alcuno dei capolavori sopracitati. Per cultura intendeva anche o soprattutto quella di fumetti, rotocalchi, radio, tv, cinema e musica, generi “leggeri” su cui l’impiego, precoce ed efficace, che ne aveva fatto il fascismo aveva proiettato una nube di sospetto che a sinistra stentava a diradarsi. Per certi versi stenta tuttora.
Preparato negli studi tomistici come nei televisivi, Eco era già noto per i suoi interessi sui nuovi modi di produzione e fruizione artistica e mediale. Lo aveva lanciato il successo del libroOpera aperta (1962) e aveva scritto per ilCorriere della Sera articoli su avanguardia, mass-media, cultura scientifica, tecniche di persuasione (collaborazione cessata in seguito, e chissà se anche in conseguenza, al saggio su Rinascita). A canzoni come quelle di Mina, faceva notare Eco, risulta un po’ difficile applicare la dicotomia crociana “poesia – non poesia” tanto cara a tutti i follower di don Benedetto, numerosissimi anche a sinistra.
Ma allora quelle, e i prodotti dell’industria culturale in genere, cosa sono: arti minori, merci, caramelle avvelenate? IlPer Elisa orecchiato nella pubblicità e fischiettato dall’idraulico in bicicletta (come il proverbiale Dante storpiato dai popolani toscani del Trecento) è ancora Beethoven o è l’estrema degradazionedi una trascendente esperienza del sublime riservata a chi può apprezzarla appieno?
Il mondo non si adattava già più alla griglia classista per cui alla borghesia (considerata colta per censo) si rivolgevano opere come quelle citate all’inizio mentre al proletariato si riservava la cultura detta non a caso “di massa”. Occorreva prenderne atto. Malgrado il tono rispettoso e a tratti sfumato dell’argomentazione, il saggio per Rinascita aveva sostanza quasi accusatoria. All’epoca un trentenne veniva considerato persona matura, innanzitutto da sé stesso, e quindi Eco non affettava timidezza e attribuiva alla politica culturale del Pci la «persuasione segreta che l’ideale per il proletariato rigenerato sia una lettura di poeti ermetici, ma a causa di alcune sfortunate circostanze ci si piega a trattarlo da coloniale sottosviluppato».
Ancora si esitava a comprendere che «la discontinuità è la categoria del nostro tempo: la cultura occidentale moderna ha definitivamente distrutto i concetti classici di continuità, di legge universale, di rapporto causale, di prevedibilità dei fenomeni. Nuove categorie hanno fatto il loro ingresso nel linguaggio contemporaneo: ambiguità, insicurezza, probabilità». La comunicazione non era più pensabile come produzione di un messaggio univoco da parte di un emittente (un partito, un giornale, uno scrittore): occorreva tener conto di differenti codici di ricezione, tempi sfasati, interpretazioni aberranti. L’ortodossia comunista trattava come universali idee di umanesimo e razionalità che erano invece storiche e già obsolete. Infine a una chiusura altezzosa verso la cultura di massa (risposta aristocratica e reazionaria) Eco opponeva la possibilità di scegliere di volta in volta il più adeguato tra i codici dell’avanguardia, dell’ironia e del riuso critico di moduli espressivi già noti. Riformulava così (a ben vedere) la lezione brechtiana.
A reagire fu per prima la responsabile culturale del Pci, Rossana Rossanda: la sua replica era stata sollecitata da Togliatti che poi la trovò schematica e anche un po’ noiosa. In sintesi diceva che Eco faceva il gioco del sistema. Fuori di sintesi e per esteso: «Le sue proposte metodologiche sono allevate nel cuore di un sistema di idee e di tecniche che il capitalismo moderno sollecita e assorbe; e non vedo come si possa, a esse, verosimilmente applicare quel décalage fra struttura e sovrastruttura per cui esse potrebbero, a lungo termine, apparire come l’elemento distruttivo della cultura della borghesia». Degna di citazione anche una mossa d’arrocco: «Le social sciencessi insediano felicemente nelle nostre università, enti locali, uffici studi dell’industria, e fra i gesuiti». Se non bastasse, persino i gesuiti.
Ironie della storia: la stessa Rossanda si sarebbe trovata in seguito dalla parte opposta dell’ortodossia ed Eco avrebbe incontrato interlocutori migliori del Pci proprio nel gruppo del Manifesto. C’è altro: contro i riferimenti echiani al Pensiero selvaggio studiato da Claude Lévi-Strauss, la razionalità occidentale e l’ortodossia comunista erano state difese da quello stesso Louis Althusser che non molti anni dopo avrebbe predicato un’originale convergenza metodologica e ideologica tra strutturalismo e Marx. Un altro fustigatore delle tendenze eretiche di Eco fu l’editore Massimo Pini, poi destinato a passare da marxismo a craxismo e di lì ai lidi di Alleanza Nazionale.
La cultura di massa si è infatti rivelata una forza, se non irrazionale, paradossale, capace perciò di scombinare e ribaltare molti discorsi, prospettive, sistemi. Per studiarla con rigore Eco divenne pioniere della semiotica e, per praticarla con rispetto, propugnatore di una cultura teorica, saggistica e universitaria alla portata di tutti, infine narratore popolare. Non accettò mai nessuno degli incarichi che dalla politica culturale di sinistra gli vennero offerti.
Dal partito, da quelli che ne sono seguiti, dalla sinistra in genere si sono poi generate alcune esperienze culturali che hanno dimostrato libertà di approccio e felice assenza di pregiudizi schematici e ideologici: la Rai Tre di Angelo Guglielmi, gli assessorati di Renato Nicolini a Roma e di Stefano Bonaga a Bologna, alcune iniziative editoriali, l’esperienza dei festival culturali italiani. Meno episodica, però, la considerazione della Rai come trofeo elettorale, l’arroganza delle baronie rosse (indistinguibile dalle altrui), la sopravvivenza di una certa concezione dell’ortodossia, ormai pressoché comica, dopo la morte della stessa “dóxa” di riferimento. Appaiono infine immortali ilsuperiority complex e il moralismo dei “valori” (parola che Eco metteva tra virgolette già in quel 1963).
Meno remoto, purtroppo, nello spirito che nel tempo, questo dibattito è stato ricostruito e commentato dai meritevoli Claudio e Giandomenico Crapis (un allievo di Eco e uno storico della cultura di massa fratelli tra loro) in un libro che ora viene ripubblicato dalla Nave di Teseo con l’integrazione dei testi originali diEco e Rossanda.