la Repubblica, 3 settembre 2022
Il serial killer di Bolzano
Quando l’incubo si concluderà, nel caldo torrido dell’estate del 1992, saranno in tanti a esultare. Non Maurizia. Perché Maurizia è ancora lì, al 3 gennaio 1985, giorno in cui tutto è iniziato. O, forse, dal suo punto di vista: finito.
Alle quindici del 3 gennaio 1985, Marcella Casagrande è a casa, sola. Ha quindici anni, le piace sorridere al mondo e sognare ad occhi aperti. Un po’ come Alice nel Paese delle Meraviglie. Fra le tre e le tre e trenta, Marcella viene uccisa e quando sua madre, Maurizia, torna dal lavoro, il tempo si ferma. Ad aspettarla c’è una schiera di poliziotti: «Ricordo bene i loro occhi sfuggenti. Occhi di giovani imbarazzati, che non hanno dove posare uno sguardo. I loro occhi vagano sperando di non incontrare i miei. Corpi con le mani nascoste. Chiedo di passare, non sanno rispondermi, sbarrano la scala con le loro divise carta da zucchero. Poi inizia quello che raramente viene raccontato: gli interrogatori ai parenti delle vittime costretti, loro malgrado, a difendersi dai sospetti. Entra un uomo. Non lo conosco. Forse dice il suo nome, il mio cervello non lo registra. Dice poche parole, le butta su di me con noncuranza e mi ritrovo a fare conti assurdi e la mia vita finisce. “Quanti coltelli ha in cucina?”».
A giugno, Anna Maria Cipolletti, prostituta, viene uccisa a coltellate nell’appartamento in cui esercita la professione. Maurizia legge la notizia e cerca di dimenticarla. Per lei è ancora il 3 gennaio. Il giorno in cui tutti, inquirenti e giornalisti, l’hanno additata come la Medea che ha stroncato la vita della figlia. Il giorno in cui: «Mi fanno accomodare. Intorno alcune persone: il procuratore, una segretaria, un signore robusto, con un cappello in testa, di cui non afferro il nome. Il procuratore inizia a parlare. Le sue frasi scivolano sulla mia mente senza lasciare traccia. Prende un fascicolo con il nome della mia bambina scritto con un pennarello, lo apre, lo sfoglia lentamente, lo gira verso di me ponendomi una domanda che non sento. Sento le orecchie ronzare, la vista si appanna, mi sento scivolare verso il basso. Due braccia forti mi prendono e insieme chiudono con stizza la teca con la fotografia di mia figlia morta. Ho continuato a pensare al tenente Nocito come ad un angelo».
Forse il tenente Nocito un angelo lo è davvero, o almeno è uno dei pochi, in questa storia, a restare un essere umano, perché mentre la polizia cerca di capire se c’è un collegamento fra la morte di Marcella e quella di Anna Maria, Maurizia inizia a ricevere lettere di minaccia e insulti. E ancora oggi non si è scoperto chi ne fosse l’autore. Il collegamento fra la morte di Marcella e quella di Anna Maria c’è, ma bisognerà aspettare sette anni per capirlo. Perché Marcella e Anna Maria sono le prime due vittime di quello che, nel 1992, la stampa battezzerà come “il mostro di Bolzano”. Sette anni in cui Maurizia è bloccata all’ultima volta in cui ha visto Marcella: «Il giaccone nero ha il cappuccio alzato, il bordo di pelliccia grigia incornicia il suo volto. Sotto, la sua prima camicetta da sera, grigio argento e il pullover che le avevo fatto, una nuvola rosa. Piccoli fiori tra le dita intrecciate e vicino, la sua bambola, per non farle troppo male. Di ogni cosa ho memoria, non del suo volto. Esco, disperata, dicendo che non è lei».
Il 7 gennaio 1992 il mostro uccide una prostituta, Renate Rauch. La scena del delitto lo fa capire subito: in giro c’è un serial killer. Solo che fra gli inquirenti, nessuno sa come sifaccia a catturarlo. Nessun movente, nessun contatto con la vittima. I metodi di indagine tradizionale sono inutili. Forse è per questo che, nel 1985, è stato così facile accanirsi su Maurizia. L’unica cosa che la polizia sa, sette anni dopo, è che deve trovare un uomo dalla ferocia inusitata. Uno che, lo sanno tutti ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente, colpirà ancora. Ma la realtà non è un film e nulla va come previsto. Le false piste abbondano e il biglietto che qualcuno lascia sulla tomba di Renate non viene quasi notato. Il biglietto dice: “Mi spiace ma quello che ho fatto, doveva essere fatto e tu lo sapevi: ciao Renate!”
L’assassino è libero e si fa beffe della giustizia mentre Maurizia vive la sua vita così: «Devo essere coraggiosa e forte così tutti dicono: “Oh, come sei coraggiosa e forte”. E dentro sei polpa di granchio. Ma è quello che devi fare. Come si sente? Come cazzo vuoi che mi senta. Maurizia, non ti incazzare, dì che hai fiducia nella giustizia e bla bla bla. E poi i preti, ah i preti. Il disegno divino… ma di cosa sta parlando? Il perdono… cosa? il perdono? Ma, scusi perdoni lei che non sa cos’è un figlio. Io ’sta cosa non la capisco. E gli amici, come hai fatto, ma come fai. Cosa come ho fatto, a fare che? A vivere? Eh, vivo». Il 21 marzo 1992 c’è un nuovo omicidio. A morire è Renate Troger, diciannove anni. È bella e anche se non è una prostituta, tutti la dipingono come tale. Perché? Perché è il modo più facile per difendersi dalla paura. Se il mostro uccide soltanto prostitute, allora va bene, sono al sicuro. Però né Marcella né Renate lo erano. E così, senza neppure rendersene conto, una città intera è entrata nella testa del serial killer e ha accettato di vedere il mondo con i suoi occhi. Forse è per questo che la polizia non riesce a individuare il colpevole: è un fantasma che esce dal nulla, uccide e torna nell’ombra. Come si fa a catturare un fantasma? Il primo passo è: non credere ai fantasmi. È il 6 agosto 1992 quando l’assassino viene arrestato. Prima, però, spezza un’ultima vita. Si chiama Marika Zorzi, ha gli occhi grandi e belli come quelli di Marcella. A uccidere lei e le altre quattro donne è un uomo che proprio il 6 agosto compie il suo ventiseiesimo compleanno. Ha i baffi ed è grande e grosso laddove le sue vittime erano piccole e minute. Si chiama Marco Bergamo e solo quando viene catturato Maurizia smette di ricevere le lettere di insulti e minaccia. E anche se l’8 marzo 1994 il serial killer viene condannato a quattro ergastoli e trent’anni, anche se nell’ottobre 2017 muore in carcere senza aver più visto il cielo, per Maurizia è sempre ancora il 3 gennaio 1985: «Vivo. Ho ben pensato a fare altro, ma solo un attimo, sul balcone al sesto piano. Ma se non avessi avuto una ragione fortissima per cambiare idea non potreste dirmi quanto sono coraggiosa e forte. Balle. Non lo sono, finiamola qui. Cerco ragioni di vita e le ho. Questa vita però l’ho consumata in lacrime».
La cronaca nera non è un rompicapo. Non è fiction. La cronaca nera è sangue e lacrime e tempo cristallizzato in eterno. Gli estratti che fanno parte di questo articolo non sono invenzione: sono ciò che nessuno dovrebbe mai scrivere. La cronaca di un dolore che non finisce mai. È stata Maurizia a concedermi di pubblicarli per la prima volta. Perché l’ultima parola, nella cronaca nera, non deve essere data all’assassino, ma alle vittime. Non sono gli assassini a raccontare ciò che siamo, sono le vittime.