La Lettura, 3 settembre 2022
Bruce Lee raccontato da sua figlia Shannon
Quasi cinquant’anni fa (era il 1973) Bruce Lee moriva, a 32 anni, per un edema cerebrale. Ma ancora oggi la figlia Shannon riceve lettere di persone che giurano di averlo visto vivo, oppure che sostengono di conoscere la «vera causa» della sua morte. E le ipotesi sono le più bizzarre: una vendetta della mafia cinese, una resa dei conti nella malavita di Hong Kong. «La verità è che molti lo vedono ancora come l’uomo dei suoi film, dotato di superpoteri, e non si rassegnano all’idea che la sua scomparsa sia dovuta a una comune patologia», dice Shannon Lee, 53 anni, secondogenita dell’attore, oggi a capo della fondazione che porta il suo nome. E autrice del libro Be water, my friend. I veri insegnamenti di mio padre Bruce Lee, in uscita in Italia il 14 settembre per Giunti. In video-collegamento da Los Angeles, Lee rilascia un’intervista in anteprima a «la Lettura».
È difficile per molti fan ammettere che suo padre era un uomo come tanti, persino con acciacchi inconsueti per la sua giovane età?
«Dirò di più: non tutti sanno che Bruce Lee ha sofferto di mal di schiena per tutta la vita. E, per quel che ricordo, stava spesso a letto, dolorante».
Suo padre è morto quando lei aveva solo quattro anni. Ha qualche ricordo di lui, sebbene sbiadito?
«Pochi. La verità è che io mio padre l’ho sempre sentito accanto a me, anche se ho fatto appena in tempo a conoscerlo. Però lui ha scritto tanto, ci ha lasciato i suoi appunti, alcune riflessioni sulla filosofia e sulle arti marziali sono state pubblicate quando lui era in vita. Io mio padre l’ho conosciuto soprattutto leggendolo e cercandolo nelle pieghe oscure della mia esistenza: i suoi insegnamenti, in qualche modo, mi sono arrivati».
Bruce Lee è conosciuto in tutto il mondo come attore e come maestro di arti marziali. Ma non tutti conoscono l’aspetto più squisitamente filosofico della sua ricerca. Aspetto condensato nel titolo del suo libro, «Be water».
«È così. “Sii acqua” è la massima che ha guidato tutta la sua vita, dall’infanzia trascorsa in parte a San Francisco e in parte a Hong Kong, alle prime lezioni di wing chun gung fu (kung fu, ndr) a tredici anni, fino alla carriera di attore. Attingendo alle filosofie orientali, era convinto che solo se diventiamo flessibili come l’acqua riusciremo a vivere con serenità. L’acqua non la pieghi, non la spezzi, non la colpisci. E tutta l’esistenza di mio padre è stata una specie di flusso intelligente e attivo, che ha saputo adattarsi alle cose, anche a quelle più difficili».
Per esempio, anche alle critiche da parte della comunità cinese quando lui voleva allargare e rendere più popolari le arti marziali?
«Certo, ma le critiche gli sono venute sia da Est che da Ovest. Lui aveva la doppia cittadinanza, di Hong Kong e degli Stati Uniti. Ma per l’America era troppo cinese e per la Cina e per Hong Kong era troppo “occidentale”. Così gli orientali lo criticavano perché ha osato aprire a tutti il mondo delle arti marziali e Hollywood ha ostacolato la sua carriera perché tra gli anni Sessanta e Settanta un attore asio-americano trovava ben poco spazio. Parliamo di puro razzismo, naturalmente. Anche nei film che lo hanno reso famoso, come per esempio Dalla Cina con furore, lui viene doppiato, poiché dicevano che il suo accento era inascoltabile. Solo ne I 3 dell’Operazione Drago si sente la sua vera voce. Ecco perché io ho visto e rivisto quel film centinaia di volte: volevo ascoltare mio padre».
La vita stessa di Lee sembra un film: artista marziale, cameriere a Seattle, numerose piccole apparizioni al cinema e poi, negli ultimi tre anni della sua vita, i tre film che lo hanno reso uno degli attori più famosi al mondo: «Dalla Cina con furore», «L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente» e «I 3 dell’Operazione Drago».
«Aggiungo: il primo attore di origine orientale protagonista a Hollywood. E pensare che nella vita di tutti i giorni non era capace di cambiare una lampadina! Scherzi a parte, sì, è stata una vita complessa, soprattutto perché lui voleva che discipline come le arti marziali unissero le persone, non che le dividessero. E, poi, sì, lui era come l’acqua: si era messo in testa di sfondare a Hollywood e per riuscirci ha fatto di tutto. Però si rifiutava di interpretare ruoli umilianti nei confronti degli asiatici e, anche quando ha accettato di fare la “spalla” al protagonista, come nella serie tv Il calabrone verde, ha combattuto così bene che la differenza tra lui e l’attore principale ancora oggi è evidente. Interpretò ragazzi asiatici che praticavano il kung fu in Ironside, Arrivano le spose e L’investigatore Marlowe, e accettò anche incarichi come coreografo di combattimento. Poi, all’inizio degli anni Settanta, quando tutto sembrava pronto per il suo successo pieno, ecco che si infortunò durante un allenamento».
Il famoso incidente dopo un preriscaldamento sbagliato?
«Sì, si rese conto che lo aspettavano settimane, forse mesi di convalescenza. Decise allora di non forzare i tempi, di riprendersi con cura. Ma ebbe anche l’idea di mettersi a produrre i film a Hong Kong. E fu quella la chiave del suo successo internazionale».
Se Hollywood ti chiude le porte, tu apri la porta d’Oriente. Sii acqua.
«Lui considerava quella fase come temporanea, voleva tornare a lavorare stabilmente negli Stati Uniti. Ci ha lasciato un foglio manoscritto in cui, nel 1969, annotò: “Io, Bruce Lee, sarò la superstar orientale più pagata degli Stati Uniti. In cambio, darò le interpretazioni più emozionanti e di miglior qualità che un attore possa dare. A partire dal 1970 raggiungerò la fama mondiale e da allora fino alla fine del 1980 avrò in mio possesso $ 10.000.000. Vivrò come voglio e raggiungerò l’armonia e la felicità interiori”. Purtroppo è morto prima di poter avere i dieci milioni di dollari, ed è stato verso il 1973 che ha raggiunto la fama vera».
Una vera fama mondiale, perché Bruce Lee è conosciuto in quasi tutti gli angoli del mondo.
«Anche in questo per me è una continua scoperta. Quasi ogni settimana scopro che c’è una statua lì o un francobollo là. Mi ha colpito sapere che la prima statua eretta per commemorare mio padre sia stata quella di Mostar: nella Bosnia devastata dai conflitti, nel 2005 il monumento a Bruce Lee voleva essere simbolo universale della lotta contro le ingiustizie. Ma ci sono monumenti in Australia, in Africa, in America Latina. Senza contare che, in qualche modo, ha accomunato anche la Cina e Hong Kong: in quest’ultima città la statua a lui dedicata è molto famosa, ma se ne trova una anche al museo delle cere di Pechino».
È vero che anche Mao Zedong era un fan di Bruce Lee?
«Me lo hanno riferito in molti, ma non ho prove certe, anche perché nel periodo in cui Mao guidava il Paese la Cina non proiettava film di mio padre, etichettandoli come film di evasione (solo nel 2007 la tv di Stato proporrà una serie tv dedicata alla vita dell’attore, ndr). Come ho detto, la sua visione era troppo di rottura: quando creò l’arte marziale del jeet kune do, definì bene il sostrato filosofico alla base. Il JKD enfatizza l’assenza di forma e il movimento non telegrafico, movimento che avviene in modo così istantaneo che l’avversario non può prevederlo».
Lei ha fortemente criticato la rappresentazione che di suo padre ha dato Quentin Tarantino nel film «Once upon a time in Hollywood». Perché?
«Premetto che non ce l’ho con Tarantino, che peraltro nemmeno conosco di persona. E che apprezzo alcuni suoi film. Ma in quella pellicola Bruce Lee appare come un arrogante, freddo e antipatico lottatore. Lui non era affatto così».
Non le è piaciuto nemmeno «Kill Bill», sempre di Tarantino, un chiaro tributo alla figura di suo padre?
«Sarà stato anche un tributo, ma Tarantino ha pronunciato pochissime volte il nome di Bruce Lee. Non mi piace il fatto che di lui si ricordi solo la parte più spettacolare, cool, iconica. Mio padre è stato molto altro, la sua lotta derivava da una profonda conoscenza della filosofia, da un allenamento costante. Non tutti sanno che, a partire dai 13 anni, Bruce Lee si è allenato ogni giorno. E che è stato tra i primi a riproporre molti pezzi separati per creare un vero equipaggiamento da combattimento corpo a corpo. Ha confezionato guanti da passata con guanti da baseball appiattiti e imbottiti. Ha riutilizzato protezioni pettorali da baseball e attrezzatura da boxe, guanti da kendo. Io stessa ho studiato arti marziali proprio per capire meglio mio padre, ma poi, durante il percorso, ho capito che il suo lascito vero è a disposizione di tutti quelli che vogliano conoscere meglio queste discipline».
Insomma, conosceva bene le arti marziali, era un attore con tanta esperienza eppure, nel 1972, la serie televisiva «Kung-fu» venne girata con un protagonista bianco, David Carradine.
«Ecco quello che vorrei dire a Tarantino e a tutti quelli che enfatizzano il lato freddo e dalla potenza quasi fumettistica di mio padre: pensate che sia stato facile fare l’attore per un asiatico negli anni Settanta? Non lo era e se Bruce Lee è passato alla storia come un uomo rigoroso e fermo nei suoi principi è stato anche perché in quegli anni doveva prima di tutto difendersi. Ma per un uomo bianco come Tarantino oggi è complicato capirlo».
Lei ha perso anche suo fratello Brandon, attore morto durante le riprese del film «Il Corvo» nel 1993, a soli 28 anni, per un incidente (fu ferito involontariamente da un colpo di pistola esploso da un altro attore mentre stavano recitando).
«La perdita di mio fratello mi provocò un fortissimo choc. I mesi successivi furono molto difficili, ma anche in quei frangenti io ho sentito mio padre vicino. I suoi insegnamenti sono stati una guida sicura e ancora oggi, quando devo intraprendere qualcosa, non temo i fallimenti o gli errori, perché so che fanno parte dell’intero percorso».
Esattamente vent’anni prima aveva affrontato la morte di suo padre.
«Mio padre morì il 20 luglio 1973 a causa di un edema cerebrale. Secondo l’autopsia è stata la reazione allergica a un antidolorifico. Io capisco che immaginare Bruce Lee morto per una banale pillola contro il mal di testa sia difficile, ma le supposizioni che sono state fatte e che si continuano a fare sono assurde. Esempio: c’è chi dice che sia stato ucciso dai ninja o dal misterioso “tocco letale”».
Ci fu un grande funerale pubblico a Hong Kong, ma Bruce Lee non è sepolto lì. Perché?
«È stata una decisione controversa per la gente di Hong Kong, che considerava Bruce Lee suo figlio, ma mia madre voleva innanzitutto tenerlo vicino a noi e poi riportarlo a Seattle, in un luogo dove aveva conosciuto pace e ispirazione».
Oggi lei, con la fondazione che porta il nome di Bruce Lee si occupa della diffusione dei suoi insegnamenti, oltre che di molte attività di beneficenza. Ma la vera eredità di suo padre, forse, è stata questa fama mondiale che non sempre deve essere facile da gestire, è così?
«Guardi, quando ero piccola, mia madre raccomandava a me e mio fratello di non dire che Bruce Lee era nostro padre. “Lascia che le persone ti conoscano per quello che sei”, diceva. Oggi lo dico forte: sono la figlia di Bruce Lee, filosofo».