La Lettura, 3 settembre 2022
Intervista a Pierre Lemaitre
Per raccontare la Francia delle Trente Glorieuses – i trenta gloriosi anni di crescita economica e sociale dal 1945 al 1975 – Pierre Lemaitre immagina le vite della famiglia Pelletier tra Beirut, Parigi e Saigon. Louis fa buoni affari con la manifattura di saponi grazie all’aiuto della moglie Angèle, ma i quattro figli non vogliono saperne di proseguire nel solco paterno: Jean, François e Hélène lasciano il Libano per trasferirsi a Parigi, mentre Étienne raggiunge Saigon per stare vicino all’amato Raymond, combattente nella guerra di Indocina. È una Francia che nel 1948 ancora fatica a riprendersi dalle devastazioni del conflitto mondiale, e che solo qualche anno dopo, proprio in Indocina con la sconfitta di Diên Biên Phu, comincerà suo malgrado il processo di decolonizzazione.
Il gran mondo (Mondadori), quarto romanzo dedicato da Lemaitre al Novecento francese, mostra lo scrittore 71enne al culmine della sua arte, con le stesse qualità della trilogia precedente – cura dei personaggi e dei dettagli, trama avvincente, tono tra humour e empatia – ormai padroneggiate con maestria eccezionale. Vinto il Prix Goncourt nel 2013 con Ci rivediamo lassù, Pierre Lemaitre non ha più lasciato il romanzo storico, abbandonando invece il noir che lo aveva portato al successo.
Dopo la trilogia dei «figli del disastro» (dal primo dopoguerra al 1940 dell’esodo seguito all’invasione nazista), arriviamo al 1948 e all’inizio del boom economico. Qual è il piano dell’opera?
«Dieci romanzi. La prima trilogia, poi quattro libri dedicati alle Trente Glorieuses, e gli ultimi tre che racconteranno il periodo dalla crisi petrolifera alla caduta del muro di Berlino, più o meno. Alla fine avrò coperto il XX secolo, non in senso aritmetico perché dal 1920 al 1990 sono 70 anni, ma in senso storico. È stato un secolo breve, come dicono gli storici».
Perché non scrive più romanzi noir?
«Mi sono stancato, mi sembra di non avere più da offrire quel po’ di valore aggiunto che avevano i miei polizieschi. Mi sono divertito troppo a scrivere Ci rivediamo lassù, e non ho più smesso».
Ha deciso dopo il Goncourt?
«Non subito, perché un anno se ne è andato in promozione, interviste, traduzioni all’estero, insomma un po’ quel che accade a Miss France dopo la vittoria».
Piacevole, no?
«Ma certo, formidabile. Ma poi mi sono rimesso al lavoro, e mi sono detto: che cosa faccio adesso? Avevo voglia di continuare la strada aperta da Ci rivediamo lassù, nato come un libro poliziesco fallito. Sono cambiato per sbaglio, è vero, ma sono cambiato».
Perché per sbaglio?
«Perché quel romanzo avrebbe dovuto essere un altro poliziesco, ambientato nel primo dopoguerra. Invece dopo le prime cento pagine mi sono accorto che era impossibile, non aveva niente dei codici richiesti. Ma sono andato avanti a scrivere così come veniva, con infinita libertà, quella che il noir non consente perché ci sono regole da rispettare».
E quindi il passaggio definitivo al romanzo picaresco e storico.
«Ero ancora indeciso, ma c’è una cosa che mi ha convinto del tutto. La scriva solo se riesce a non farmi apparire come un megalomane pretenzioso. Amo molto Émile Zola, e sono capitato su una pagina manoscritta anteriore ai Rougon-Macquart. In quella pagina Zola scrive i venti titoli, li cambierà talvolta un po’ ma sono riconoscibili, di tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Vuole scrivere quei venti romanzi in vent’anni, un romanzo all’anno, e ci riesce! Ci ha messo 22 anni invece che 20, ma insomma aveva tutto in mente, aveva un piano ventennale testa, e lo ha realizzato. Stupefacente».
Questo le ha dato la spinta finale per il suo, di piano?
«Con quella pagina Zola impartisce due lezioni: la prima, tu non sarai mai Zola. D’accordo. La seconda è che bisogna avere il coraggio di concepire un progetto letterario. Non bisogna avere paura di pensare in grande, se poi non ci si riesce pazienza. Ma le piccole ambizioni non danno sufficiente respiro. Zola mi ha convinto a provarci, e quindi mi sono lanciato in questo progetto, molto più modesto, di scrivere 10 romanzi in 10 anni che abbiamo come sfondo il Novecento francese».
«Il gran mondo» è la sua prima saga famigliare.
«Credo che sia necessaria una certa maturità letteraria per cimentarsi con la saga famigliare, è una cosa complessa. Prima non mi sentivo pronto, stavolta ho osato».
Ha ricordi personali delle Trente Glorieuses?
«Sì, sono nato nel 1951. E devo dire che è molto più difficile scrivere quando si hanno ricordi, perché mi sono reso conto che non hanno niente a che vedere con la realtà storica».
Le Trente Glorieuses corrispondono un po’ al miracolo economico italiano, una specie di paradiso dopo l’orrore della guerra.
«I miei genitori erano comunisti, quindi niente paradiso, niente ottimismo nella società capitalistica».
Quel è allora un esempio di un suo ricordo che più si discosta dalla realtà storica?
«Diciamo che ho completamente mancato una serie di problemi sociali che erano fondamentali e che all’epoca ignoravo totalmente. La questione dell’aborto, per esempio, che era ancora clandestino e che quindi provocava sofferenze terribili».
Qual è il peso delle vicende storiche nei suoi romanzi? Lei sembra privilegiare psicologia e vite dei personaggi.
«È così, in effetti. Parto sempre da un elemento storico debole, secondario. Parlo del periodo tra le due guerre, non affronto le guerre mondiali. Questo mi permette di non dovere parlare troppo degli eventi storici, ma di usarli come sfondo per consacrare la maggior parte del tempo ai personaggi».
Nel libro c’è una parte molto interessante dedicata alla guerra in Indocina, che nella memoria collettiva francese occupa un posto infinitamente più piccolo rispetto alla guerra d’Algeria.
«È un po’ una guerra dimenticata, per molte ragioni. La più importante è che in Indocina combattevano i soldati di professione, mentre in Algeria sono stati mandati anche ragazzi che facevano il servizio militare. Poi, credo che i francesi avessero capito già allora che la guerra in Indocina era una questione puramente capitalistica, serviva ai capitalisti per tutelare i loro interessi».
Da cui lo scandalo delle piastre di cui parla nel romanzo.
«Una vicenda incredibile, una colossale truffa organizzata non contro le autorità ma con il loro consenso, a partire dal raddoppio del tasso di cambio della moneta locale, la piastra indocinese».
Étienne va a Saigon per seguire il suo innamorato, arruolato nell’esercito francese. Lo racconta come infelice a scuola, ma compreso e amato in famiglia. Visione non usuale, ai tempi.
«Nel primo romanzo, ambientato nel 1919, il protagonista è maltrattato anche in famiglia, ma io credo che nel secondo dopoguerra la mentalità avesse cominciato a cambiare. Non dico che tutte le famiglie fossero aperte, del resto non lo sono neanche adesso, ma l’omosessualità è sempre esistita e per fortuna non tutti gli omosessuali hanno dovuto subire sempre l’odio dei genitori».
Quanta politica c’è nei suoi romanzi? A un certo punto, per esempio, arriva un’intera pagina sulle violenze poliziesche, tema di grande attualità ancora oggi in Francia.
«La politica è presente perché io sono di sinistra, è una cosa che trapela dalla mia visione del mondo e quindi da quello che scrivo. Ma niente di più. Non scrivo romanzi ideologici, per illustrare un’idea di partenza. Altri lo hanno fatto benissimo, da Sartre a Aragon».
È andato a Beirut, dove è ambientato l’inizio del romanzo, o a Saigon, per documentarsi?
«Detesto viaggiare».
Come mai?
«Lo trovo insopportabile, un esercizio inutile. Vivere un anno in un Paese, imparare la lingua, conoscere le persone, impadronirsi della cultura, va bene. Ma fare un viaggio di tre settimane all’altro capo del mondo mi pare una follia».
Quindi non ci è andato?
«Veramente stavolta avevo persino deciso di tralasciare i miei principi e mi ero rassegnato a partire per Saigon per fare ricerche sul posto. Combinazione, è arrivato il Covid. Viaggio annullato. Era destino. Che sollievo».
E quindi come ha fatto?
«Ci sono una quantità di giornali e libri, film e fotografie sui quali documentarsi. Un po’ alla Jules Verne».
O come Emilio Salgari, che descriveva la Malesia o le Antille senza avere mai oltrepassato l’Adriatico.
«Così ho creato un’Indocina da operetta, forse, ma persone che ci hanno vissuto mi dicono che non è poi tanto lontana dalla realtà. Questa cosa delle ricerche sul posto non la capisco. È un problema che si pone per la geografia, e non per la storia. Se scrivi sul Settecento, nessuno obbietta che nel Settecento non ci sei mai stato. I miei sono romanzi, non saggi».
Lei dedica quattro pagine, molto interessanti, ai ringraziamenti. E cita subito Camille Cléret, la storica che la assiste nella fase di documentazione.
«Mi pare il minimo, trovo sorprendente che non lo facciano tutti. Collaboriamo benissimo insieme ormai da anni, è una persona che pago e che è importante per il mio lavoro e che trovo doveroso ringraziare. Camille mi segnala quando mi prendo delle libertà rispetto alla verità storica. Non sempre correggo, ma voglio saperlo. Comunque, la questione dei ringraziamenti è importante perché dietro c’è una concezione di letteratura».
Quale concezione di letteratura?
«L’immaginazione non esiste. Non come una sorta di ispirazione che cali dall’alto sullo scrittore come lo spirito santo. Parlo per me, sia chiaro. Ma tutto quello che scrivo arriva da qualche parte. Tutte le storie sono state già scritte, tutte. Mi piacerebbe prendere ogni riga dei miei romanzi e ri-attribuirla, e un po’ ci provo nelle pagine dei ringraziamenti. Il mestiere dello scrittore è fare la sintesi, una nuova sintesi, di quel che è stato già detto. Mentre scrivo uso dei post-it per ricordarmi di ringraziare gli autori dai quali ho preso qualcosa».
Nella lunga lista c’è un italiano, Antonio Scurati. Che cosa ha preso da lui?
«Non me lo ricordo con precisione, ma sicuramente qualcosa. Mi sono piaciuti moltissimo i suoi romanzi su Mussolini».
È un po’ il metodo di H. G. Wells, che lei cita: «Si prende un dettaglio da qualcuno, un dettaglio da un altro; dall’amico di sempre o da un tizio appena intravisto sul marciapiede di una stazione, in attesa del treno. A volte si fa propria anche una frase, un’idea, da un fatto di cronaca letto sul giornale. È questo il modo di scrivere un romanzo; non ce ne sono altri».
«Lui lo scrive nel 1939 e io penso che sia una concezione ancora valida. Quando avrò scritto tutti i miei dieci libri, le pagine dei ringraziamenti messe insieme formeranno forse una teoria del romanzo».