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 2022  settembre 03 Sabato calendario

Un unico cielo per tutti i popoli


La casata degli Zhou è una delle dinastie che hanno governato più a lungo, su una zona molto vasta. È durata quasi otto secoli: dall’XI al III prima della nostra era. Copriva un’ampia area di quella che oggi è la Cina. Ciononostante, gli Zhou non sono mai stati un gruppo particolarmente potente e ricco: sono arrivati al potere guidando un’alleanza che si è ribellata e ha rovesciato la dinastia precedente, e sono rimasti al potere grazie a un sistema feudale di alleanze e gestione degli equilibri. Risale a loro una delle dottrine politiche più longeve e influenti dell’Asia: la nozione di «mandato del Cielo».
Mentre le dinastie precedenti regnavano per diritto divino o per diritto di conquista, come tanti regnanti europei, gli Zhou reclamavano il diritto a governare come mandato da una divinità celeste sulla base della loro efficacia nel garantire l’armonia fra i popoli. Ciò implicava che questo diritto fosse subordinato al benessere e al giudizio dei governati. Particolarmente interessante è il fatto che il mandato del Cielo era inteso non riguardare solo una regione delimitata, ma tutto ciò che vi sia «sotto il cielo». L’espressione cinese tianxia, letteralmente appunto «sotto il cielo», forse resa meglio in italiano come «sotto un unico cielo», si riferisce a quest’idea della politica come potenzialmente inclusiva anziché esclusiva. La regione di interesse per il «mandato del Cielo» nel millennio prima della nostra era, cioè, non riguardava una zona delimitata da confini, in opposizione a nemici esterni, ma implicava la responsabilità dell’imperatore di farsi carico di realizzare armonia, o almeno compromesso, con tutte le popolazioni all’orizzonte. Come per molti grandi imperi del mondo, da Alessandro Magno a Gengis Khan, dagli Asburgo agli Stati Uniti d’America, la grande diversità culturale non era considerata incompatibile con l’esistenza di un ordine al di sopra delle parti.
Il declino della dinastia Zhou, dopo molti secoli, è stato graduale: il sistema feudale si è lentamente disgregato, degenerando in un periodo turbolento, periodo però di straordinaria fecondità culturale. I grandissimi libri del pensiero cinese, fra i più importanti testi dell’umanità, Zhuangzi, Confucio, Mozi, Laozi, Mencio, risalgono a questo periodo.
Nel 2005, Zhao Tingyang, uno dei filosofi politici attuali più influenti in Cina, ha pubblicato in patria un volume («Il sistema Tianxia: una filosofia per le istituzioni mondiali») uscito l’anno scorso in inglese come All under Heaven: The Tianxia System for a Possible World Order (University of California Press, 2021), suscitando vivo interessa e una vivace discussione tanto in Cina che in Occidente. Zhao prende ispirazione da alcuni aspetti della nozione Zhou di tianxia per proporre coordinate per ripensare la politica internazionale oggi. Il punto di partenza del libro è l’osservazione che mentre la politica è riuscita, in maniere diverse più o meno buone, a risolvere il problema della convivenza all’interno dei singoli Stati, invece il problema di convivere nel pianeta fra Stati è irrisolto: la politica internazionale è caos, anarchia nel senso peggiore, la legge del più forte, un susseguirsi di guerre, massacri e tensioni. Istituzioni dalle lodevoli intenzioni come le Nazioni Unite sono impotenti: i più forti non rispettano le decisioni collettive. Se la politica è arte del vivere assieme, la politica internazionale deve ancora nascere.
Zhao argomenta che l’idea che la sovranità debba appartenere unicamente ai singoli Stati – il principio di diritto internazionale che si fa tradizionalmente risalire alla Pace di Westfalia che pose fine alla Guerra dei Trent’anni, e che è iscritto nella carta delle Nazioni Unite – non ci porta a un mondo stabile. Al contrario, è necessario concepire un soggetto politico nuovo, l’umanità intera, ripensare la politica internazionale in termini di inclusione, non di esclusione, e rendersi conto, semplicemente, che collaborare conviene rispetto all’essere permanentemente in conflitto, come ora fa il mondo. Il libro presenta un’analisi acuta e profonda, che mi ha particolarmente colpito, delle basi teoriche della teoria dei giochi: la teoria matematica usata per modellizzare il comportamento razionale nelle scelte di agenti in interazione.
L’idea di base stessa di individuare la massimizzazione di un guadagno individuale come obiettivo degli agenti «razionali» tradisce un’incoerenza di fondo: gli agenti reali sono essi stessi il prodotto di reti collaborative sia interne che esterne e come tali hanno un interesse evolutivo a lungo termine, che non è necessariamente la massimizzazione di un guadagno individuale a breve termine. In parole semplici: preferire il conflitto alla collaborazione in vista di un guadagno a breve termine è miope dal punto di vista della ragione. Eppure è su questa logica che oggi si muove la politica internazionale. L’idea di tianxia proposta da Zhao, nel solco del confucianesimo, è agire per trasformare il mondo in uno spazio unico compatibile con le diversità culturali ma unificato dall’ideale di una umanità civilizzata che collabora.
Zhao è stato accusato di edulcorare e mitizzare la realtà della Cina degli Zhou e di cercare di rimpiazzare il predominio ideologico e la pretesa superiorità morale occidentale con una pretesa superiorità morale e un predominio ideologico orientale. Cadere in queste critiche è esattamente cadere nella logica del predomino. Il problema del mondo oggi non è chi avrà più influenza nell’infinito gioco di scambio che è la civiltà. Il problema attuale del mondo è come evitare che il XXI secolo sia un disastro come è stato il XX secolo: cento milioni di morti ammazzati e il pianeta devastato dalle due guerre mondiali, problema reso oggi ancora più drammatico dall’insensato arsenale atomico, pronto a essere lanciato, diffuso anche in Italia, senza controllo italiano. Il problema del mondo non è chi vincerà militarmente, ideologicamente, politicamente. Il problema del mondo è come trasformare il gioco a chi vince in un gioco a come meglio collaborare per il bene comune. Non è come vincere le guerre: è come evitarle.
L’urgenza di questo problema è sottolineata da un altro libro recente di grande interesse che riguarda la Cina. Questo scritto da un personaggio di indubbia fedeltà occidentale: l’ex premier australiano Kevin Rudd. Rudd è profondo conoscitore della Cina: a lungo ambasciatore a Pechino, parla fluentemente mandarino e conosce da vicino la leadership cinese. Il libro è un’analisi approfondita ed estesa della politica cinese, del Partito comunista cinese e in particolare delle idee e degli obiettivi del leader attuale, Xi Jinping. Il titolo del libro riassume la situazione, come è vista dall’importante politico australiano: The Avoidable War: The Dangers of a Catastrophic Conflict between the US and Xi Jinping’s China, («La guerra evitabile: i pericoli di un catastrofico conflitto fra gli Stati Uniti e la Cina di Xi Jinping», Public Affairs, 2022).
Che stiamo andando naturalmente verso un simile conflitto, e che solo una brusca sterzata della politica occidentale possa evitarlo, è la tesi di un altro libro che ha recentemente suscitato larga eco nel mondo: Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide? (Fazi, 2018) del politologo americano Graham Allison. In un passaggio famoso, lo storico greco Tucidide osservava che la guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene era quasi inevitabile, perché quando cresce una nuova potenza economica (Atene/Cina) e declina il peso economico della potenza militarmente dominante (Sparta/Usa), la prima non si accontenta più di essere dominata e la seconda non tollera che qualcuno non si faccia più dominare. In queste condizioni solo una grande saggezza e lungimiranza evitano un conflitto che finiscono per pagare tutti. La Cina teme un conflitto data l’enorme sproporzione militare, ma per molti anni, dalla fine della guerra fredda in poi, i documenti strategici degli Stati Uniti hanno fatto riferimento esplicito al fatto che sia interesse degli Stati Uniti ingaggiare anche militarmente qualunque potenza locale prima che questa possa crescere fino al punto di mettere in questione il predominio militare mondiale statunitense.
Nel 1913, la produzione mondiale di beni era per oltre l’80% concentrata in Europa e America. Il dominio economico occidentale sul modo era recente ma totale. Oggi, la produzione di beni dell’Occidente si è ridotta da quell’80% a meno del 20% della produzione mondiale. Il dominio dell’Occidente si appoggia oramai sulle armi, non sull’economia. E su una propaganda ideologica che forse in Occidente suona ancora convincente per qualcuno, ma non più nel resto del pianeta. Il futuro è nelle mani di una decisione: l’Occidente deve decidere se essere pronto a scatenare l’inferno per mantenere il predominio e continuare a incrementare i suoi privilegi, oppure ripensare al pianeta in termini di collaborazione, invece che di competizione, polarizzazione, «avversari strategici», «contenimento» degli avversari, malvagi «autocrati».
Anche l’impero americano si regge su un parziale tianxia, un sistema di alleanze, di cui il nostro Paese fa parte. Penso sia responsabilità degli Stati satelliti come il nostro resistere al farsi trascinare nel continuo avventurismo bellicoso del nostro alleato maggiore e adoperarsi invece per contribuire a gettare le basi di una politica internazionale di cooperazione invece che di scontro. Di un singolo soggetto politico, l’umanità, tutta «sotto un unico cielo». Credo che sia questo che chiede il mondo.