La Lettura, 3 settembre 2022
La Cina verso il congresso del 16 ottobre
Anche la Cina è in campagna elettorale. Succede ogni cinque anni, senza bisogno di manifesti con i volti dei candidati, senza che siano noti i loro nomi, senza dibattiti in tv, dichiarazioni, promesse. E, soprattutto, nella Repubblica popolare cinese non è previsto che i cittadini comuni vadano alle urne. Non è necessario perché, come disse Mao Zedong, «il Partito guida governo, esercito, società, istruzione, Est, Ovest, Nord, Sud, Centro, il Partito controlla tutto, anche sé stesso». Il teorema della supremazia comunista fu parzialmente ammorbidito ai tempi della grande apertura di Deng Xiaoping all’«economia di mercato con caratteristiche socialiste cinesi», quando per riemergere dal pauperismo maoista fu riscoperta l’iniziativa privata. La frase sul controllo totale è tornata con Xi Jinping, che l’ha declamata aprendo il XIX Congresso del Zhongguó Gongchan Dang (il Pcc) nell’ottobre del 2017.
Cinque anni dopo, il Partito-Stato rinnova le sue cariche di vertice: poco più di duemila delegati in rappresentanza di 96 milioni d’iscritti sono convocati il 16 ottobre nella Grande sala del popolo su piazza Tienanmen per eleggere 200 membri del Comitato centrale (più altrettanti supplenti), che a loro volta daranno la loro benedizione a 25 dirigenti dell’Ufficio politico, i cui membri più autorevoli, attualmente 7 compreso il segretario generale Xi Jinping, costituiranno il Comitato permanente del Politburo. Ecco dunque la Cina teoricamente in campagna elettorale per il XX Congresso del Partito.
Un rito pagano preparato in un segreto più stretto di quello dei conclavi che eleggono i papi. Zhongguó Gongchan Dang è ateo, ma simile alla Chiesa cattolica nel maschilismo del suo clero politico: tra i 25 membri del Politburo attualmente c’è una sola donna, Sun Chunlan; nessuna signora è mai stata cooptata nel Comitato permanente del Politburo; nel Comitato centrale se ne contano solo 10 tra i 204 eletti. Quando è stato presentato l’elenco dei 2.287 delegati al Congresso del 2017, le compagne sono state accorpate nella categoria «minoranze etniche e donne». Sun è destinata alla pensione, perché ha superato i 68 anni di età. La regola non scritta si chiama qishang baxia, che significa «sette su, otto giù». I membri del Politburo che al Congresso hanno 67 anni o meno possono restare in carica, quelli che hanno raggiunto o superato i 68 lasciano. Xi Jinping ha compiuto 69 anni il 15 giugno, ma ha preso le sue precauzioni per sfuggire al baxia/«otto giù»: nel 2018, la Cina ha emendato la costituzione abolendo il limite dei due mandati per la presidenza della Repubblica e tutto lascia pensare che anche il Partito-Stato lo rieleggerà al vertice.
Xi è entrato nell’empireo del Politburo nel 2007, a 54 anni; e quando è diventato segretario generale nel 2012 al XVIII Congresso del Partito e poi capo dello Stato nel 2013, nessuno in Occidente aveva un’idea chiara sulla sua linea politica e sui motivi che avevano spinto i compagni ad affidarsi a lui. La segretezza maniacale del processo decisionale cinese rende impossibili le previsioni. WikiLeaks ha rivelato documenti americani classificati del 2007 e 2009, dai quali abbiamo appreso che l’ambasciata Usa di Pechino aveva tra le fonti un suo caro amico. E questo amico, professore universitario, spiegò che Xi era «un sopravvissuto della Rivoluzione culturale», uno che aveva deciso di scampare a quegli anni di follia maoista «diventando più rosso del rosso», sempre sostenuto da «un’ambizione straordinaria». Nel 1968, a 15 anni, fu mandato con migliaia e migliaia di coetanei dalle città a zappare in campagna «per essere rieducato dai contadini più poveri», come ordinava allora il credo maoista. Fu uno choc, a quanto si dice il giovanotto cercò di evadere e rientrare a casa a Pechino, ma fu costretto dalla madre a tornare nei campi.
Il padre, Xi Zhongxun, era stato un comandante guerrigliero della Lunga marcia, nominato vicepremier poco più che trentenne e secondo l’informatore citato dal documento americano era «più vicino a Deng che a Mao». Per questo fu purgato due volte ma, finita l’era maoista, riemerse. Tornò a Pechino nel 1976 anche il ventitreenne Xi Jinping, che da buon «principe rosso» (come si definiscono i figli degli eroi rivoluzionari) potè completare gli studi laureandosi in Ingegneria chimica alla celebre Tsinghua. Nonostante le credenziali che gli garantivano la protezione di compagni influenti, il futuro segretario generale dovette presentare dieci volte domanda di ammissione al Partito, prima di ricevere la tessera.
Provato dalla Rivoluzione culturale, padre denghista: per questo nel 2012 in Occidente si pensò che Xi Jinping avesse un animo riformista, se non proprio liberale. Sempre nel dossier scovato da WikiLeaks, viene segnalata una sua simpatia hollywoodiana: parlando di cinema con l’ambasciatore americano disse di avere molto apprezzato Salvate il soldato Ryan «perché proietta un senso di giustizia». Ma era ancora vicepresidente, nel 2009, quando durante un viaggio in Messico sibilò: «Alcuni stranieri con le pance piene non hanno niente di meglio da fare se non puntare il dito contro di noi. Dico loro: primo, la Cina non esporta la rivoluzione; secondo, non esporta carestia e povertà; terzo, non perde tempo a giocare con voi. Che altro c’è da dire?».
Appena eletto segretario generale del Partito, nel 2012, ha lanciato il primo slogan della nuova era: Zhongguo meng, tradotto come «sogno cinese». Sinologi e politologi si sono molto applicati al tentativo di decifrarlo, all’inizio paragonandolo all’American dream. Ma la Cina ha una visione ispiratrice diversa rispetto agli Usa. Xi vuole sempre saldare il conto storico con il «Secolo dell’umiliazione», i cent’anni segnati da Guerre dell’oppio, colonialismo occidentale e invasione giapponese.
La questione taiwanese si inquadra in quest’ansia di rivincita ma anche nella convinzione dei leader cinesi che la geopolitica debba essere «etica»: siccome gli Stati Uniti e la stragrande maggioranza dei governi mondiali hanno riconosciuto che esiste «una sola Cina», Taiwan non può che essere riassorbita, a tutti i costi. Inutile appellarsi al realismo, Xi ha proclamato che la partita della riunificazione non può essere lasciata in eredità alla prossima generazione, come fecero prima di lui Mao, Deng, Jiang Zemin e Hu Jintao. Quest’impegno rischia di destabilizzare il Pacifico e il mondo, anche se parlando con i cinesi comuni non emerge la volontà di sacrificarsi per fare sventolare la bandiera rossa con cinque stelle gialle sull’isola. Quello di Taiwan è uno dei tanti tunnel nei quali Xi ha deciso di entrare a testa bassa.
A noi sembra che il virus del potere assoluto lo abbia spinto a commettere errori gravi. Ma forse il Partito lo ha scelto proprio per la sua intransigenza, messa in luce con la campagna anticorruzione che ha fatto cadere le teste di oltre un milione e mezzo di funzionari in dieci anni. Se la campagna elettorale fosse vera, Xi dovrebbe spiegare ai cinesi perché ha promesso «prosperità condivisa» ma non riesce più a garantire un lavoro a milioni di giovani: la disoccupazione nella fascia di età 16-25 anni ha superato il 19% a luglio. Dovrebbe rendere conto dell’ordine di frenare «la crescita caotica del capitalismo», che si è tradotto in una ripresa di controllo del partito-Stato sui settori industriali privati più innovativi (come ha dimostrato il caso di Jack Ma e della sua Alibaba) e ha bruciato centinaia di miliardi di capitalizzazione in Borsa. Xi dovrebbe dare risposte anche alle decine di migliaia di cinesi che non vogliono più pagare le rate dei mutui su case che non sono state consegnate perché i giganti dell’edilizia sono stati bloccati dalla stretta del credito. Dovrebbe dire alla gente fino a quando resterà in vigore la politica sanitaria Zero Covid, che impone lockdown a oltranza a milioni di cittadini ogni volta che in una metropoli emergono poche decine di contagi. L’agenzia Xinhua ha pubblicato un profilo del segretario generale: 600 righe per assicurare che Xi «guida il Partito comunista cinese verso la costruzione di un Paese socialista grande, prospero, moderno, armonioso e bello». L’elogio si chiude con questa frase tratta dalla formula di adesione dei membri al Partito: «Giuro di battermi per il comunismo per il resto della mia vita». Nel caso di Xi è anche un programma di leadership a vita.