Corriere della Sera, la Repubblica, 3 settembre 2022
Alessandra, la prima bimba nata in Italia da un utero trapiantato (con un’intervista alla mamma)
Lara Srignano per il Corriere
È nata di 34 settimane e pesa solo un chilo e settecento grammi. Non è ancora fuori pericolo, ma i medici sono ottimisti. «Ha grinta come i suoi genitori», dicono nel reparto di Terapia Intensiva neonatale dell’ospedale Cannizzaro di Catania dove è stata ricoverata dopo il parto. Alessandra ha pochi giorni di vita ed è la prima bimba italiana nata da una donna alla quale è stato impiantato l’utero di una persona deceduta. La prima in Italia, la sesta nel mondo. Un miracolo per i suoi familiari, la vittoria della scienza per l’équipe di sanitari che ha lavorato al caso.
La storia inizia quando Albina e Giovanni, una coppia di Gela, leggono su un giornale del programma sperimentale di trapianto dell’utero, coordinato dal Centro nazionale trapianti (Cnt), a cui ha aderito l’ospedale Cannizzaro di Catania. È il 2018. Albina, che a causa di una rara patologia congenita, la sindrome di Rokitansky, non ha l’utero e non può avere figli, decide di rivolgersi ai medici catanesi. Comincia così una lunga trafila: si cerca di capire se ha i requisiti per essere inserita nella lista dei riceventi d’organo e si attende. In Italia il trapianto di utero da vivente non è autorizzato e i donatori sono pochi. Passano due anni: Albina nel frattempo si è sottoposta al prelievo degli ovuli per un’eventuale fecondazione assistita. Poi, in piena pandemia, una donna di 37 anni di Firenze, che al rinnovo della carta di identità aveva espresso la volontà di donare gli organi, muore per emorragia cerebrale, e da un primo screening pare compatibile con Albina. «La telefonata del Cnt ci sorprese di notte – ricorda il professor Paolo Scollo, direttore della Divisione di Ostetricia e Ginecologia del Cannizzaro di Catania —. Mandarono la documentazione e facemmo una prima valutazione positiva». Scollo vola a Firenze per l’espianto. Con lui c’è Pierfrancesco Veroux del centro trapianti del Policlinico. «Fu un intervento di grande delicatezza – racconta —, un’operazione lunga perché occorre mantenere intatte le connessioni vascolari e legamentose dell’utero. Poi tornammo a Catania dove la paziente nel frattempo era stata preparata. L’impianto fu altrettanto complesso, ma andò bene». In 24 ore cambia la vita di Albina. Scongiurato il rigetto, si dà il via alla fecondazione assistita. «Il Cannizzaro – dice Scollo – è uno dei due istituti siciliani per la fecondazione assistita e da noi c’è l’unica banca italiana di preservazione della fertilità del paziente oncologico». Un centro di eccellenza, dunque, che ha già all’attivo due trapianti di utero: ad agosto, un’altra donna si è sottoposta allo stesso intervento. La gravidanza di Albina procede bene. Un mese fa la donna risulta positiva al Covid, ma è e resta asintomatica. Nei giorni scorsi cominciano le contrazioni e si opta per il cesareo. Martedì alle 21.30, Alessandra, che porta il nome della donatrice che ha ridato speranza alla sua famiglia, viene al mondo. La madre, che ha ancora il Covid, l’ha vista solo in foto: «Uscirò presto. Non vedo l’ora di abbracciarla».
Sara Scaraffia pe rla Repubblica
«A mia figlia racconterò che quella della sua nascita è una storia d’amore e gratitudine. E che il suo cuore batte anche per mantenere viva la donna che mi ha permesso di diventare madre».
Albina Verderame, 31 anni, il 20 agosto del 2020 entrava in sala operatoria per ricevere — prima in Italia — l’utero che non ha mai avuto.
Due anni e dieci giorni dopo, il 30 agosto scorso, ha messo al mondo Alessandra, 1,7 chili di speranza.
Alessandra, come la donatrice scomparsa improvvisamente a 37 anni.
Albina è all’ospedale Cannizzaro di Catania, isolata, in attesa di superare anche l’ultimo ostacolo, sconfiggere il Covid e abbracciare la sua bambina. Le separano cento metri, la distanza tra il suo letto e la culletta termica dove la piccola, nata alla trentaquattresima settimana, sta muovendo i primi passi nel mondo.
Giovanni, il papà, che lavora nelle campagne di Niscemi, li percorre di continuo, guardandole dietro ai vetri. «Il prima possibile io e mia figlia faremo un viaggio in Toscana, dalla famiglia della donatrice».
Albina, è in contatto con loro?
«Sì, col marito e con la sorella. Ci siamo trovati sui social un anno fa, quando, in un’intervista aRepubblicasul trapianto riuscito, dissi che avrei voluto ringraziarli. Sono stati i primi a sapere che la bimba era nata: li considero un pezzo della mia famiglia e non smetterò mai di ringraziarli».
Sono passati due anni da quando ha subito il trapianto: cosa è successo durante questi mesi?
«Un’altalena di emozioni in piena pandemia. Prima il lungo anno in attesa di capire se il nuovo utero sarebbe stato accettato dal mio corpo. Poi i tentativi di ottenere una gravidanza naturalmente. Un intoppo, che mi ha costretta di nuovo in sala operatoria. Infine, la fecondazione assistita, grazie agli otto ovociti che avevo congelato prima del trapianto».
Quando ha scoperto di essere incinta?
«Il 12 febbraio. Non potevo crederci.
Ho chiamato subito Giovanni che nel frattempo era positivo al Covid.
Abbiamo atteso venti giorni prima di poterci abbracciare. Una data che non dimenticherò mai è il 3 marzo: ho sentito per la prima volta il battito del cuore di mia figlia. Non sapevo ancora che fosse una bambina».
Quando l’ha scoperto?
«Qualche settimana dopo. Ho messoda parte ogni cautela: ho fatto un salto e ho gridato ad Alessandra, la donatrice: “Ale ce l’abbiamo fatta”».
Nessun dubbio sulla scelta del nome?
«Nessuno. Alessandra continuerà a vivere in mia figlia che a sua volta, spero, sarà mamma, portando avantiquesta catena d’amore».
La sindrome di Rokitansky è una rara patologia congenita per la quale si nasce senza utero. Lei fa parte di un gruppo che riunisce circa 250 donne italiane che ne sono affette. Come hanno reagito alla notizia della nascita della bambina?
«Alcune si sono accese di speranza.
Altre lasciano prevalere la paura. Ma io dico: “Credeteci”».
Lei abita a Gela. Si aspettava di riuscire a completare il suo percorso in Sicilia?
«Trovo miracoloso che il primo centro a sperimentare il trapianto sia a 100 chilometri da casa mia: non avrei potuto sostenere i costi delle trasferte e della Fivet. Devo tutto all’equipe del Cannizzaro e faccio mio l’appello del direttore del reparto di Ginecologia Paolo Scollo: non interrompete gli arruolamenti. Il trapianto diutero non salva la vita, ma dà la vita».
Tenterà di avere altri figli?
«Avevo pensato di farmi togliere l’utero dopo il parto: la vita da trapiantata non è facile. Ma quando Alessandra è nata con taglio cesareo, i medici hanno visto che funziona benissimo. E quindi sì, ci proverò. Ma continuo a portare avanti le pratiche per l’adozione».
Perché vuoleadottare?
«Mi hanno donato una possibilità,voglio darne una anch’io».
Cosa farà quando andrà in Toscana a trovare la famiglia della donatrice?
«Andrò al cimitero. So che Alessandra amava i girasoli. Gliene porterò un mazzo. Le parlo sempre, continuamente. Ma voglio stare un po’ lì, vicino a lei».