Corriere della Sera, 3 settembre 2022
La svolta del tetto al prezzo del petrolio russo
CERNOBBIO Se il governo di Olaf Scholz ha cambiato posizione, è perché ormai gli resta ben poco da perdere dato che per Vladimir Putin non esistono colpi proibiti. Pur di provare a mettere in ginocchio la Germania o l’Italia, il leader russo è pronto a razionare il solo prodotto da esportazione che l’Europa non ha ancora colpito. Ma storicamente non è quest’ultimo – il gas – ad assicurare la parte più importante delle entrate del bilancio del Cremlino. L’energia rappresenta quasi la metà del bilancio del governo di Mosca, ma in tempi normali Putin deve questi flussi finanziari in gran parte al petrolio. È con l’export del greggio che Putin copre da anni le spese del suo corrottissimo apparato militare e di sicurezza da 100 miliardi di euro l’anno. È con quello che paga i «volontari» della guerra ucraina dieci volte il salario medio delle provincie più povere, per convincerli ad arruolarsi. Ed è sempre con le entrate da petrolio che Putin indennizza le famiglie dei caduti con somme così alte da renderle ricche – rispetto ai vicini dei loro villaggi della Russia profonda – e cloroformizzare la protesta.
Per tutte queste ragioni, un tetto al prezzo del petrolio russo può dimostrarsi una svolta dalle conseguenze imprevedibili. Destabilizzante per il Cremlino e per gli equilibri sempre più precari del sistema internazionale. Lo è perché, più di qualunque altra sanzione, quella misura può avvicinare nel tempo lo strangolamento finanziario di Mosca: a maggior ragione adesso che i flussi di gas verso l’Unione europea sono ormai ridotti ai minimi termini. Ma se la decisione del G7 è una svolta, è anche perché segna la globalizzazione di questa guerra economica fra Mosca e l’Occidente. Non a caso ieri il Cremlino ha subito reagito designando gli Stati Uniti come parte in causa del conflitto ucraino e congelando il gasdotto Nord Stream 1 verso la Germania senza scadenza, in un estremo tentativo di far impazzire i prezzi e far collassare così l’economia europea.
Di sicuro gli sviluppi di questi giorni accelerano la globalizzazione del conflitto per l’Ucraina perché, questa volta, le conseguenze possono arrivare direttamente fino alla Cina, all’India e agli altri Paesi neutrali o vicini a Mosca. Il tetto al prezzo del petrolio deciso dall’Occidente funzionerebbe infatti solo grazie alla minaccia di sanzioni contro le imprese di qualunque altro Paese che dovesse violare le regole indicate da Stati Uniti, Unione europea, Giappone, Canada e Gran Bretagna. In sostanza, il G7 cerca di costringere tutti i Paesi del pianeta a condividere lo stesso cordone sanitario che l’Europa e gli Stati Uniti hanno già imposto sulla Russia.
Il «tetto», se tutti i Paesi dell’Unione europea lo approveranno, funzionerà infatti esattamente come le sanzioni contro l’Iran. Se un’azienda cinese, indiana o sudafricana comprasse petrolio russo a un prezzo sopra ai livelli massimi indicati dall’Occidente come accettabili, allora perderebbe accesso all’Europa e agli Stati Uniti. Più precisamente, perderebbe accesso ai mercati in dollari e in euro. È lo stesso tipo di minaccia che grava oggi, per esempio, sulle banche europee che dovessero fare affari con Teheran: sanno che sarebbero tagliate fuori dai mercati americani, dunque si astengono.
In sostanza il G7 sta sfoderando la minaccia di punire le imprese di tutti i Paesi neutrali o alleati con la Russia, Cina in primis. È sempre possibile che quelle cerchino da dicembre in poi di aggirare i vincoli con pagamenti occulti o offshore, specie se il governo di Pechino desse indicazioni in questo senso. Ma così le ricadute della guerra in Ucraina sono destinate a coinvolgere i sistemi di intelligence in tutto il mondo, chi per dare la caccia a eventuali aziende che aggirano le sanzioni, chi per aiutarle a farlo. Di sicuro c’è che gli effetti si vedono già. L’azienda tecnologica cinese Huawei, per esempio, ha smesso di sottoscrivere nuovi contratti in Russia per paura di essere esclusa dai mercati europei.