Sette, 26 agosto 2022
Intervista ad Antonio Scurati - su "M. Gli ultimi giorni dell’Europa" (Bompiani)
In un racconto fantastico o del terrore, se un individuo incontra il suo doppio, nasce un conflitto nel quale soccombe. I tedeschi lo chiamano Doppelgänger, il russo Dostoevskij l’ha raccontato ne Il sosia. Nel caso di Mussolini e di Hitler, con il loro specchiarsi e diabolico manipolarsi, il terrore si fa Storia. E a soccombere saranno milioni di persone. L’incontro tra i due dittatori è il cuore del terzo volume di «M», la saga di Antonio Scurati dedicata a Mussolini e all’Italia fascista. Se nel primo M si raccontava l’ascesa di Mussolini e in M2 gli anni del regime, in M3 si va dalla visita del Führer in Italia nel 1938 fino alla nostra entrata in guerra nel 1940, a conclusione di un’intesa militare e ideologica suggellata dalle leggi razziali.
Come il Duce condurrà l’Italia in questo abisso è raccontato con un uso spietato delle fonti e una fantasia romanzesca chirurgica, senza anestesia, per evitare falsi alibi: siamo stati noi, come ricorda l’autore nell’avvertenza, i «feroci, dementi cani della guerra» al fianco di Hitler. Un vero romanzo storico è sempre attuale e politico, ma questa volta il racconto parla al presente in maniera clamorosa. Non tanto per la coincidenza della probabile vittoria della destra in Italia, che eccita inevitabilmente un antifascismo di retroguardia, quanto per la crisi europea causata dall’invasione russa dell’Ucraina. Il volume, con filologia eloquente, si chiama Gli ultimi giorni dell’Europa.
Il titolo è un epitaffio per l’Europa del Novecento e un monito per l’Europa di oggi. Quando ha deciso di adottarlo?
«Doveva chiamarsi Il libro dell’infamia, e per infamia non intendo solo le leggi razziali, ma il fascismo come miscela maleodorante di furbizia, calcolo e paura. Poi ho riletto le memorie dell’allora ministro degli Esteri della Romania, che hanno questo titolo, e mi sono reso conto che fotografa meglio l’argomento: una fine, che non è compimento, ma estinzione, della civiltà europea, per colpa del nazifascismo. La cronaca di questi giorni, la guerra russa in Ucraina, ci parla di una nuova minaccia di estinzione: non significa che scompariremo tutti, ma che ciò in cui abbiamo creduto e sperato potrebbe sparire dal nostro orizzonte».
Quali parallelismi più la colpiscono?
«Il primo è l’ideologia imperialista di potenza e di dominio su altri popoli considerati sacrificabili, destinati ad uno stato permanente di minorità, Paesi satellite, vassalli. Accomuna la visione di Putin a quella di Hitler. Poi la retorica ufficiale con cui si giustifica il ricorso alle armi, è identica: invadere per difendere una minoranza. Hitler lo fece per quella germanofona dei Sudeti in Cecoslovacchia... Putin lo fa per territori dell’Ucraina dove c’è una componente russofona che lui proclama essere perseguitata o addirittura sterminata, a dispetto di ogni evidenza. Anche le dichiarazioni di Hitler, che riporto nel romanzo, erano smentite dalla realtà. Poi colpisce l’iterazione dello schema: Austria, Sudeti e Danzica per Hitler, Cecenia, poi Crimea, Georgia, Ucraina per Putin... Anche la violenza distruttrice di civili e città accomuna nazismo e putinismo, è terrorismo militare di Stato. Infine, vedo una simmetria forte nella sgomenta passività di certe democrazie liberali europee».
Lo spirito di Monaco, l’illusione di ammansire Hitler sacrificando alcuni Stati.
«Monaco è il momento in cui la figura di Mussolini sembra ergersi come architetto della pace».
Poi il Duce si schiera con la belva, l’aggressore. Sperava di trarne un facile vantaggio.
«Sapeva della totale impreparazione militare dell’Italia, della mancanza di risorse economiche, finanziarie e materiali, e della refrattarietà degli italiani ad andare in guerra a fianco dei tedeschi, aveva visto il volto demoniaco del nazismo... ma tutto questo veniva azzerato dall’illusione di poter manovrare politicamente Hitler: un pensiero sciagurato, patetico e grottesco. E poi, una volta legatosi a Hitler, si illudeva di essere alla guida di un Paese guerriero, di una nazione in armi. È sconvolgente scoprire quanto Mussolini fosse al tempo stesso lucidamente consapevole dell’abisso e ottenebrato da un macroscopico auto-inganno».
La sua politica sembra viziata dalla continua sopravvalutazione delle sue abilità personali.
«Si sente uno statista che gioca a scacchi, su più tavoli, con la Germania da una parte e con l’Inghilterra dall’altra, facendo affidamento sulla sua furbizia, una forma di intelligenza che si chiama scaltrezza e che spinta oltre la soglia critica è la più pericolosa forma di stupidità. Ma chiariamo un punto: l’entrata in guerra, per molti, è il momento in cui inizia la caduta di Mussolini, come se fosse un errore di calcolo: gli indulgenti dicono che si è smarrito, che lui era anche altro... No, è l’esito ultimo ma ineludibile di un vizio d’origine del fascismo che non è mai stato altro che questo. E sentirsi furbi è un vizio atavico italiano».
Se provassimo a riassumere l’essenza del fascismo in una parola, quale sarebbe?
«Direi la paura. Il fascismo è stato, è, pauroso. Mentre la rivoluzione promette il sol dell’avvenire, la speranza, lui scopre che c’è una passione politica più potente, ed è la paura. Non la speranza della rivoluzione ma la paura della rivoluzione. Fin dalle origini lui punta tutto sulle paure del bolscevico, dell’invasione, e governava con la paura, la violenza. Faceva paura e campava sulla paura. Ma Mussolini entra in guerra al fianco di Hitler anche perché teme di averlo contro, la paura lo divora. La forza della paura è un’altra analogia forte con il presente e le nuove destre, in Italia e in Europa, in quella occidentale soprattutto, che distinguo da quella orientale da quando c’è stata l’invasione russa. Dobbiamo scegliere se resistere o cedere alla seduzione del dittatore, la potenza bellicista, il totalitarismo, se cedere al timore di metterci contro qualcuno che vive delle nostre paure».
Se dovesse individuare un momento chiave, un dettaglio simbolico del rapporto tra Hitler e Mussolini, quale indicherebbe?
«La prima visita di Stato di Hitler in Italia nel 1938. Lui è sceso per tirare Mussolini a sé, perché all’epoca la Germania era senza alleati e le democrazie liberali cercavano di tenere l’Italia fuori dalla guerra o addirittura di portarla dalla propria parte. È un momento di profondo mimetismo per cui uno si convince della propria identità e ideologia guardando l’altro al proprio fianco. Per Hitler è anche l’occasione di coronare i sogni di pittore mancato, è la prima volta che visita i musei e le gallerie d’Italia, e il culmine è a Firenze. Ecco, penso al congedo dei due, sulla banchina della stazione. C’è un dettaglio, ampiamente testimoniato: dopo le frasi di rito, le promesse di amicizia tra i popoli, Hitler si commuove, ha le lacrime agli occhi, mentre Mussolini resta ancorato al suo cinismo, infatti poi farà con i presenti un commento sarcastico».
Cosa c’è in quella lacrima? Da dove viene?
«Con questa effusione Hitler apparentemente manifesta un trasporto verso l’amico, l’alleato, il maestro; aveva un’autentica venerazione per Mussolini, e ne darà molte prove durante la guerra, soccorrendoci in Grecia e nei Balcani. Ma al fondo c’è la passione per l’infinito affermarsi della propria individualità di potenza, in quel momento Hitler sente che il sogno di grandezza pangermanista si sta realizzando tramite Mussolini e l’alleanza con l’Italia. L’allievo attira a sé il maestro e il maestro, che pure vede l’abisso, lo segue verso l’apocalisse, un’apocalisse scatenata, in fondo, da noi che ci schieriamo con Hitler».
La scena sembra smentire i luoghi comuni sui popoli: emotivo il latino, freddo il germanico.
«Rivela l’indole individuale. Mussolini dovrebbe essere il sentimentale perché italiano e in realtà rimane sempre l’uomo capace di recitare ogni sentimento perché non ne prova nessuno, mentre Hitler, il nordico, viene preso da uno dei suoi slanci di emozione tardo-romantica, quella tensione verso l’infinito e l’assoluto che spinge, elimina ogni freno. Invece la maschera di Mussolini, da cinica commedia politica, è freno di sé stesso, e ha a che fare con il particolare, non con l’assoluto, con l’infinito, di fronte al quale soccombe, perché la commozione di Hitler rivela una vulnerabilità solo apparente. In realtà in quelle lacrime di commozione si spalancano gli abissi della sua sconfinata volontà di potenza e capacità di distruzione. In quella lacrima ci sono già i campi di sterminio, l’orrore».
Nel libro vediamo Mussolini farsi vaso, per bieco opportunismo, dell’ideologia antisemita nazista. Il vuoto tattico è qui al suo peggio.
«L’Italia non era antisemita, l’Italia di Mussolini diventa antisemita per calcolo meschino. Voleva rinsaldare l’alleanza con il nazismo. E come spesso accade ai convertiti insinceri ha un eccesso di zelo, da integralista: le leggi razziali, nell’autunno del ‘38, sono le più dure che esistano in Europa, persino più dure di quelle della Germania nazista».
Tra gli ebrei vittime di queste leggi, nel libro ha molto spazio Renzo Ravenna: podestà di Ferrara. Fino all’ultimo, si ostina a credere che il fascismo non perseguiterà gli ebrei.
«M è la storia dei carnefici e non principalmente delle vittime, ma c’è sempre almeno una vittima che le riassume. In questo caso ho scelto il podestà fascista di Ferrara, Renzo Ravenna, grande amico di Italo Balbo e ottimo amministratore. Fino all’ultimo si illude, si auto-inganna che la persecuzione non avrà corso. Si sbagliava. Lui cadrà in disgrazia, il figlio emigra, molti familiari verranno condotti allo sterminio. Ho messo in scena gli ebrei fascisti ben sapendo che non tutti gli ebrei erano stati fascisti, ma molti lo sono stati fino all’ultimo».
Anche Margherita Sarfatti, ebrea, deve fuggire.
«Oltre che una complice del regime, Sarfatti è stata la consigliera del primo Mussolini. Noi la vediamo nella sua fase crepuscolare anche perché il suo posto è stato preso da Claretta Petacci, la giovane amante di Mussolini, adorante, quasi una groupie, mentre Margherita Sarfatti era una donna matura, che poteva essergli intellettualmente superiore. Il passaggio di consegne è segno di una progressiva solitudine del dittatore e anche della sua precoce senescenza».
Lei descrive le briciole di compassione di alcuni italiani non ebrei verso gli italiani ebrei, con una riflessione sull’auto-inganno: ci si può sentire più umani quando si empatizza con una persona perseguitata, ma in realtà si tratta di un effetto della riduzione di umanità che la vittima ha patito.
«Si dice che la legislazione razziale fu l’altro momento in cui Mussolini perse il polso del popolo e non si rese conto che molti italiani non la capirono, che provarono compassione verso i concittadini ebrei. Questo è vero, in parte. Ma se così tanti non condivisero le leggi e provarono pietà per i compagni di scuola dei propri figli, dei colleghi di lavoro, dei concittadini ebrei, quanti agirono di conseguenza? La risposta è spaventosa. Sì, in tanti magari inorridirono e deprecarono in silenzio, e gettarono briciole di solidarietà, ci fu pure chi manifestò attivamente, ma sostanzialmente la maggior parte restò passiva e inerte. Qualcosa di simile può succedere oggi con i migranti, il popolo ucraino o chiunque sia costretto a occupare il posto della vittima. Noi proviamo spesso un breve turbamento, ma poi restiamo inerti. Le emozioni ci fanno sentire assolti, ma sono effimere».
Mi ha colpito la fine di Angelo Fortunato Formìggini, un intellettuale ebreo, editore di testi comici, che si getta dalla torre della Ghirlandina a Modena. Di fronte alla tragedia la comicità si suicida. Non è possibile riderne.
«Premetto di non condividere quanti dicono che si debba arretrare di fronte alla rappresentazione dell’ineffabile, del male assoluto, qui Hitler. Ammetto però una mia idiosincrasia verso la comicità applicata ai dittatori e ai loro crimini. Per me anche Il grande dittatore di Chaplin, nonostante l’evidente genialità, ha avuto conseguenze nefaste: rappresentare Mussolini come personaggio comico o buffo, per esempio, ha dato luogo a un grande equivoco in ambienti anglo-americani riguardo il Duce e il fascismo, che sono stati sottovalutati».
«Non fermi i dittatori, i carri armati o le camere a gas con l’ironia! Prendo a prestito una frase di Godard che indicò come suo grande rimpianto non aver potuto impedire a Spielberg di realizzare Schindler’s List. Ecco, direi che se avessi potuto impedire a Roberto Benigni di girare La vita è bella l’avrei fatto e sarei stato felice».