La Stampa, 2 settembre 2022
Marcello sorgi ricorda Gorbaciov
Sorprendente, assolutamente sorprendente: così riaffiora nei ricordi – pubblici e privati – Gorbaciov. Mosca, 14 ottobre 1988, visita del presidente del Consiglio italiano con una delegazione di imprenditori. In un capannone intitolato «Italia 2000», un domani ormai prossimo, Gorby, così lo chiamano giornali e tv di tutto il mondo, avanza a passo deciso con accanto De Mita, premier, e Agnelli, leader degli industriali italiani. A loro dirà, con un segno d’accoglienza che mai si sarebbero aspettati dall’ultimo capo dell’impero comunista: «Capitalisti, arricchitevi!».
Il giorno stesso sarebbe stato firmato l’accordo sul gas (commento di Andreotti: «Cinque anni fa sarebbe stato un insulto all’Occidente») che ora Putin e la guerra in Ucraina hanno rimesso in discussione. L’indomani De Mita avrebbe confidato che nelle imminenti elezioni Usa, un passaggio storico, la fine dell’era Reagan, Gorby tifa per il vicepresidente repubblicano Bush, poi vincente, e non per lo sfidante democratico Dukakis. Fiuto politico e difesa del processo di pace, che da un cambio di amministrazione avrebbe potuto subire un alt o un rallentamento.
Così che il colpo di Stato dell’agosto ’91 e le immagini di Gorbaciov e della moglie Raissa, tremante, che rientrano al Cremlino con negli occhi la consapevolezza del destino che li aspetta, sono uno di quegli eventi indimenticabili che segnano la storia. Come l’attentato a Kennedy, o l’uomo sulla Luna, o la caduta del Muro di Berlino, o le Torri Gemelle, o la bandiera dell’Impero sovietico ammainata per l’ultima volta sul pennone.
Da quel momento in poi, per chi ha avuto occasione di frequentarlo, c’è il Gorbaciov privato. E per noi de La Stampa, l’autorevole editorialista che viene ogni tanto a trovarci in redazione, a Torino, chiedendo al direttore di ricambiare la visita a Mosca.
L’ufficio dell’uomo che era stato il più potente dell’altra metà del mondo è in una palazzina anonima del Leningradskij Prospekt, dove ha sede, ma senza insegne, la Fondazione Gorbaciov. A ricordare i fasti del tempo andato, un certo apparato di sicurezza, che introduce all’anticamera, e poi alla stanza dove Gorby riceve spesso insieme alla figlia Irina, avvolta in eleganti tailleur, spesso vestita di rosso. Gli incontri accontentano un vezzo del personaggio: Gorbaciov vuol essere pagato di persona dal direttore e gradisce fermarsi a parlare dei suoi articoli, non sempre, per la verità, così efficaci perché rigorosamente astratti dall’attualità.
Il tempo e la distanza dagli uffici pubblici lo hanno leggermente appesantito, ma conserva l’aplomb del grande leader, che si ferma a riflettere prima di parlare e scantona abilmente da qualsiasi domanda. Ma finita la liturgia, per così dire, ufficiale, Gorby ama essere un ospite cordiale, spontaneo, amichevole. Un cenno a Irina e sulla scrivania, a qualsiasi ora, anche di mattina, si allineano bicchieri colmi di un pesante rosso georgiano che lui, con una battuta, sostiene «piaceva molto a Stalin». Poi, con piacere, Irina serve certi immangiabili – ma non rifiutabili – pasticcini ricoperti da una crosta appiccicosa di zucchero. Così, brindando al futuro e alla Stampa, la conversazione volge alla fine.
Ma una volta, arrivando senza saperlo insieme a Giulietto Chiesa e Anna Zafesova, nostri corrispondenti dalla capitale russa, una mattina di marzo del 2001, ci coglie di sorpresa una fila interminabile di persone che ruota attorno alla palazzina. Sono le delegazioni dei partiti comunisti di tutto il mondo venute per festeggiare e portare regali a Gorbaciov, nel giorno del suo settantesimo compleanno. Per nostra fortuna troviamo ospitalità in quella italiana, guidata da Cervetti, l’autore dell’indimenticabile «L’oro di Mosca» sui finanziamenti sovietici al Pci, e collocata a metà del serpentone: dopo due ragionevoli ore arriva il nostro turno. Stavolta Gorbaciov è più frettoloso, preferendo subito separare la delegazione politica da quella del giornale, e dedicando cinque minuti a ciascuna, con la ragionevole motivazione che avrebbe avuto da fare fino a sera per ricevere tutti quei comunisti arrivati da ogni parte del mondo. Sulla porta, però, dopo il solito rituale di vino e snack, intimandoci che non avrebbe accettato scuse, ci comunica che ha piacere di invitarci la sera al ricevimento per il genetliaco.
Ci ritroviamo così nella hall dell’imitazione di un albergo americano, come tanti ce ne sono ormai, nella Mosca in piena trasformazione che sempre più sta prendendo le sembianze di un luna-park. La serata è gelida. Una nevicata pomeridiana ha lasciato tracce fangose all’aperto. Una piccola folla è all’ingresso, composta soprattutto da giovani donne che rallentano l’accesso perché devono togliersi stivali e anfibi da neve per calzare scarpe da sera con tacchi alti. Presto o tardi giunge anche stavolta il nostro momento. Veniamo accompagnati all’ascensore e poi fatti entrare in un salone piuttosto grande, tipico da ricevimenti, al centro del quale è un piccolo palcoscenico con strumenti musicali di un’orchestra.
Gorbaciov, cordiale e allegro più di sempre, è a un tavolo da dieci persone, vicino proprio al palcoscenico.
Non avremmo mai pensato di essere invitati a sedere con lui, eppure è così. Mentre gli ospiti affluiscono, cercando collocazione, Chiesa intrattiene Gorby e la musica comincia a diffondersi nella sala, rendendo più complicato seguire la conversazione. Davanti a ogni posto, oltre alla normale apparecchiatura, sono allineati quattro o cinque piccoli bicchieri da vodka, che alcuni dei presenti hanno già cominciato a usare per aperitivo nella maniera tradizionale, che prevede di precipitarli per terra e romperli in segno d’augurio. Ma il padrone di casa aspetta a bere, riservandosi con grande cortesia di presentare uno ad uno gli altri ospiti che stanno per collocarsi al suo tavolo.
Sono un gruppo di intellettuali, amici e non, un pezzo di società civile, grati al leader che ha ridato loro la libertà. Un famoso scrittore con il volto percorso da rughe profonde. Un pittore con qualche traccia di colore sotto le unghie. Un poeta pensoso che non proferisce parola. Una donna bionda leader di un gruppo femminista. Ultimo, entra in sala un cantante, che si avvicina a Gorby solo per salutarlo e conoscere noi italiani, poi sale al centro del palcoscenico, affrettandosi a regolare l’asta del microfono. Incredibilmente, questo insieme così vario e così dichiaratamente russo, nelle facce e nei movimenti, ha qualcosa di familiare, per noi. Chissà come, ci chiediamo. Ed è Chiesa, con un colpo di genio, ad azzardare una spiegazione: in un modo o nell’altro, per ragioni politiche o professionali, ciascuno di noi ha da tempo consuetudine con il Pci. La scena di quel tavolo, la fila di quei volti, suggeriscono un forte senso di parentela tra il partito padre, o madre, il Pcus, e i cugini italiani. Lo scrittore ricorda Moravia. Il pittore, Guttuso. Il poeta, Pasolini. La pasionaria bionda, la Castellina. E il cantante, con un po’ di sforzo, può perfino assomigliare a Claudio Villa. Ecco il perché della reminiscenza. Oppure, sarà stata solo la fantasia che ci ha spinto a formulare questo strano confronto, pur di sentirci a casa e non più soli nella notte gelata di Mosca. —