La Stampa, 2 settembre 2022
Il whatever it takes dell’energia. La proposta di Brunetta
Caro direttore, la guerra del gas si sta sempre più rivelando una partita di alto livello degna di un gioco in cui i russi hanno sempre eccelso: gli scacchi. E la Russia si è dimostrata abilissima, orientando l’offerta per spingere il prezzo a livelli insostenibili e massimizzare i ricavi. Un fornitore che tormenta i suoi clienti, più deboli a causa della loro dipendenza.
Il vantaggio strategico di Mosca è stato anche quello di conoscere alla perfezione i meccanismi di pricing che l’Europa stessa si è data, e di saperli sfruttare al meglio. Meccanismi datati, di dubbia efficacia, che stanno mostrando pericolosamente la corda. E mentre la Russia si rende imprevedibile, variando la quantità di gas da inviare al Vecchio Continente come e quando vuole, e creando così quella incertezza di mercato che è linfa vitale per la speculazione, l’Unione europea sembra aver compreso soltanto negli ultimi giorni l’urgenza di cambiare schema. «Stiamo lavorando a un intervento di emergenza e a una riforma strutturale del mercato elettrico», ha detto lunedì scorso la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.
Ai trader sono state sufficienti queste parole – insieme all’apertura della Germania a discutere del price cap e del decoupling, sin da marzo caldeggiati dal Governo italiano, con il premier Mario Draghi e il ministro Roberto Cingolani – per far crollare i prezzi. A riprova del fatto che la strada è giusta. Ma alle parole devono ora seguire le azioni. Il 7 settembre i rappresentanti degli Stati membri parteciperanno a un seminario sui diversi modelli di price cap e il 9 è convocato il vertice straordinario dei ministri Ue dell’Energia, anche se le dichiarazioni del ministro tedesco dell’Economia Robert Habeck sulla necessità di cercare a livello europeo un approccio migliore del price cap per regolare i meccanismi di tariffazione dell’energia lasciano intendere che trovare un accordo non sarà semplice.
Da giugno l’impennata dei prezzi è stata inesorabile. L’annuncio di Gazprom di ridurre i flussi dal gasdotto Nord Stream 1 ha prodotto nel mercato maggiori timori sulla effettiva capacità dell’offerta europea di stare al passo con la domanda. La mossa di Gazprom rappresenta l’ennesima conferma dell’azione di “weaponization” del mercato del gas messa in atto dalla Russia come risposta alle sanzioni occidentali. Azione andata a vantaggio della bilancia commerciale russa. Per Mosca la perdita di gettito da gas dovuta alla minor quantità venduta è stata più che compensata dall’aumento di gettito provocato dall’incremento del prezzo.
L’Europa non si è dimostrata altrettanto astuta. Ha continuato a rispondere masochisticamente all’uso del gas come arma di guerra da parte della Russia, ricorrendo a strumenti ordinari sul lato della formazione del prezzo, come se la controparte sul mercato fosse un normale soggetto industriale. L’escalation dei prezzi del gas si è poi riflessa sul prezzo dell’energia elettrica, al cui aumento hanno contribuito altri fattori di restrizione dell’offerta, come la siccità.
Certamente non sono state d’aiuto le fragilità e le disfunzioni dei mercati europei del gas e dell’elettricità, in particolare sul fronte dei meccanismi di pricing: sistemi di calcolo non adatti a uno scenario di guerra. È risultata evidente, nei giorni scorsi, l’incapacità del Title transfer facility (Ttf) di Amsterdam di prezzare correttamente il reale valore del gas.
Quali soluzioni? Nel breve periodo sono due: la riduzione della domanda di energia e la revisione del sistema di fissazione dei prezzi. Sul primo punto, in Italia, come in Europa, sono già al vaglio piani per il risparmio energetico e il contenimento “intelligente” nell’uso delle fonti, nell’ambito dei quali, specialmente nel nostro Paese, la Pubblica amministrazione può giocare un ruolo fondamentale, ottimizzando l’utilizzo degli spazi, riducendo i consumi e inserendo obiettivi ad hoc nella premialità dei dirigenti. È, inoltre, dirimente che l’Italia solleciti l’apertura di un tavolo negoziale a livello europeo per riconoscere le necessarie compensazioni ai settori industriali energivori. Sul versante degli aiuti a cittadini e imprese, il Governo Draghi si è comunque distinto: come calcolato dal think tank Bruegel, siamo il secondo Paese Ue per risorse stanziate.
Bisogna agire con urgenza, perché i differenziali di prezzo del gas con Stati Uniti e Cina rappresentano sempre di più un rischio di perdita di competitività per la produzione di beni europei. Anche sul pricing sono necessari interventi immediati, pure al fine di permettere ai costi di generazione da fonti green di incidere maggiormente sul costo dell’elettricità. È il “decoupling” già attivo negli Usa. Sganciare il prezzo dell’elettricità da quello del gas o eliminare l’indicizzazione rispetto alle rinnovabili potrebbe essere una soluzione efficace, così come superare la dipendenza dalla borsa di Amsterdam. Si potrebbe, per esempio, introdurre un tetto massimo fissato al benchmark del prezzo Henry Hub, il principale mercato del gas negli Stati Uniti.
Il tema dell’introduzione del decoupling e del price cap, tuttavia, richiede una revisione drastica del mercato unico europeo. Nel momento in cui un Paese fissa un tetto al prezzo del gas più basso di quello attuale, infatti, le esportazioni della materia prima crescono e, quindi, deve aumentare la generazione del bene energetico per sostenere l’export. Non a caso gli esempi di price cap fino a oggi tentati (Spagna e Grecia) si basano tutti su contesti poco interconnessi con il resto del mercato europeo, a differenza di Italia e Germania. Estendere il modello spagnolo a tutta Europa potrebbe essere una soluzione, a patto che non si crei uno sbilanciamento alle frontiere.
Ma, più in generale, chi pagherebbe la differenza tra il prezzo spot di mercato di oggi e il prezzo amministrato, considerando che dovrebbe essere applicato a contratti, spesso di lungo periodo, già sottoscritti? L’Occidente è in grado di imporre a Mosca il pagamento del prezzo amministrato? Forse, allora, la misura più utile, e meno costosa per le finanze dei singoli Paesi, potrebbe essere l’introduzione di una versione “flessibile” del price cap, sul modello del Transmission Protection Instrument usato dalla Bce come scudo anti-spread. Un meccanismo pubblico di pricing che interverrebbe al superamento di una determinata soglia, possibilmente non resa nota ex ante, con modalità e tempi decisi in totale discrezionalità dal policy maker europeo.
Tornando alla metafora degli scacchi, l’Europa deve dotarsi di nuove regole flessibili di funzionamento dei mercati dell’energia, per poter battere la Russia sulla sua stessa strategia: l’imprevedibilità. Una strategia che, nella teoria dei giochi, viene definita “tit for tat”, colpo su colpo. Tutto questo almeno fin quando non saranno ripristinate normali condizioni di mercato, ovvero finché l’Ue non si sarà affrancata dalle fonti energetiche russe. L’Unione dovrebbe, in sintesi, proporre un meccanismo di formazione dei prezzi che limiti al massimo il peso del gas russo sul pricing dell’energia elettrica e dichiarare apertamente che è disposta a modificare quelle regole fin quando i mercati non saranno in grado di prezzare il gas al suo reale valore. Un “Whatever it takes” sull’energia. Questo approccio dinamico renderebbe più difficile, per la Russia, calcolare l’offerta alla quale massimizza i profitti e, per gli investitori, scommettere al rialzo.
Nel lungo periodo, invece, la soluzione è l’aumento dell’offerta di gas, da un lato rafforzando la capacità estrattiva, gli investimenti, le infrastrutture, la ricezione del gas liquefatto dal Nord America, i rigassificatori, e dall’altro lato diversificando le fonti di approvvigionamento, anche a livello geografico. Secondo alcuni esperti, questo insieme di interventi dovrebbe essere accompagnato da un rallentamento del Green Deal, ossia da una sospensione dei target di riduzione CO2. Allentare i limiti prefissati potrebbe, in effetti, contenere la speculazione e ridurre l’onere della transizione che grava sulle spalle delle imprese europee, costrette a competere con Cina e India, molto meno impegnate nel taglio delle emissioni inquinanti. Senza contare che nessun investitore sarebbe incoraggiato a puntare sulle infrastrutture per potenziare l’offerta delle fonti fossili sapendo che sono il bersaglio nel mirino dell’Ue.
Gli obiettivi della transizione green, per chi sostiene questa tesi, sarebbero, dunque, in trade-off con quello prioritario di proteggere la sicurezza energetica nazionale. Ma altri esperti non concordano, proprio perché ritengono il Green Deal un catalizzatore del ricorso alle rinnovabili, nonché un asse portante del Pnrr. Un compromesso potrebbe essere quello di deflazionare la “retorica green” e limitarsi ad annunciare un freno al piano verde. Potrebbe bastare per mutare i fondamentali rialzisti del mercato senza che la transizione energetica si fermi davvero.
Resta centrale la proposta di un Next Generation Eu 2 per finanziare nuovi Pnrr dedicati ad affrontare la crisi energetica. Altre soluzioni strutturali sono le liberalizzazioni e le semplificazioni del mercato delle rinnovabili. L’Italia potrebbe subito dare un segnale politico importante, destinando all’efficienza energetica nella prossima legge di bilancio alcune delle risorse allocate nel Fondo complementare da 30,6 miliardi. Indicherebbe la volontà del nostro Paese di riorientare gli investimenti connessi al Piano nazionale di ripresa e resilienza secondo il programma RePower Eu, aprendo la strada a un aggiornamento del Pnrr senza attivare la procedura ex art. 21 del Regolamento 241/2021.
Per l’Europa vale la lezione di Kasparov, uno dei migliori scacchisti di sempre: «La più grande capacità negli scacchi risiede nel non consentire all’avversario di mostrarti ciò che è capace di fare». —