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 2022  settembre 02 Venerdì calendario

Intervista a Cate Blanchett

La divina Cate Blanchett torna a Venezia con un film che è una sfida (vi anticipiamo che l’ha vinta, ne dubitavate?) e che farà discutere: inTár,ritorno al cinema dopo sedici anni del regista Todd Field, si racconta il mondo internazionale della musica classica attraverso la figura di Lydia Tár (Blanchett), ampiamente considerata una delle più grandi compositrici/direttrici d’orchestra viventi e la prima donna a dirigere una grande orchestra tedesca. Il film (in sala a febbraio 2023 con Universal) la segue dall’apice dei suoi poteri creativi, di carriera e personali – vive con una violinista, hanno adottato una bimba – fino allo straziante declino. Un crescendo di accuse MeToo, video e mail rilanciati sui media: la accusano di aver favorito in orchestra la violoncellista di cui è invaghita, molestato donne in passato, perseguitato una musicista che poi si è tolta la vita. L’incontro con l’attrice è all’hotel Excelsior, giacca bianca, l’aria serena e sicura.
A quali direttori si è ispirata?
«A nessuno in particolare, ma ho studiato Carlos Kleiber, Antonia Brico, Marin Alsop e Nathalie Stutzmann. E le grandi orchestre per capire come l’autorità assoluta del direttore si sia trasformata quando il concetto di democrazia ha iniziato a insinuarsi, cambiando le dinamiche delle nomine».
Il film affronta tanti temi.
«È una creatura tentacolare. Mi sono svegliata stamani pensando che è una sorta di meditazione sul potere, istituzionale e creativo. Un potere in una relazione disuguale. Un direttore spesso parla dell’orchestra come del proprio strumento, ma è composta da molti individui, su cui ha il potere di nomina. Tu percepisci in alcune istituzioni, in particolare nel mondo della musica classica, in cui il canone è creato e diretto da maschi, che il potere è quello di un monarca. Che succede allora se sfidi il sistema per arrivare al potere? Sei consumato oalterato da questo? La relazione fragile che hai con gli impulsi creativi può essere distrutta».
C’è anche il tema del tempo.
«Lydia è la persona sbagliata al momento sbagliato, il sistema che l’ammirava ora la mangia. Non devi essere attrice o atleta per capire che a cinquant’anni inizia la sfida: hai raggiunto la cima e capisci che la prossima sarà più difficile perché avrai a che fare con la discesa».
Dopo “Carol”, porta ancora sullo schermo una coppia lesbica
«Lidya è una persona che ama econvive, come molti. Non importa che sia uomo o donna. Detto questo credo che l’omogeneità nel mondo dell’arte sia la morte, la diversità e la pluralità siano la vita»
Lei pensa di avere potere?
«Beh, sono una donna bianca che ha avuto un’istruzione completa, ha una relazione stabile, lavoro, finanze e salute. Da questo punto di vista sono potente».
Il film è una storia di MeToo al contrario?
«No. Le molestie non sono una questione di genere. Ma se nel film sivede solo il MeToo è perché la questione è ancora aperta, c’è una rabbia non metabolizzata. Nel film il MeToo e la cancel culture sono funzionali alla trama, rappresentano il mondo che ci circonda. Non sono il centro».
In una scena del film si nomina Placido Domingo.
«Tutti abbiamo seguito le sue vicende giudiziarie. Nel film i riferimenti sottili sono tanti».
L’arte va divisa dalla persona?
«Davanti a un Picasso immagino cosa potesse accadere in quel suo studio,
maGuernica è una delle più grandi opere create. L’importante è esercitare, sempre, una critica sana.
Il pregiudizio però non ti deve accecare. A 22 anni mi presero perOleanna di Mamet, il testo mi pareva orrendo. Alle prove arrivai sprezzante e il regista urlò “sei di ostacolo allo spettacolo, ti faccio licenziare”. Fu un trauma, ma imparai che al pubblico non serviva il mio giudizio: fu libero di discutere all’uscita, qualche coppia ha divorziato nel foyer».