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 2022  settembre 01 Giovedì calendario

Su "Il segreto di Amrit Kaur" di Livia Manera Sambuy (Feltrinelli)

Amrit Kaur nascondeva la malinconia con i gioielli. La figlia di uno dei più carismatici principi indiani del XX secolo, maharaja del piccolo regno di Kapurthala, ornava il sari regale con creazioni provenienti dalle più raffinate boutique francesi. Tra tutti, quello che preferiva indossare, era la libertà che aveva visto entrare in voga nel costume e nella vita delle donne occidentali. Un accessorio inopportuno per una principessa indiana, il cui solo desiderio bastò a marchiarla come una pericolosa outsider.

La prima volta che la vide, in un pomeriggio di marzo del 2007, la giornalista Livia Manera Sambuy era in India per lavoro, pochi giorni dopo il funerale del fratello. In una sala del Prince of Wales Museum di Mumbai trova la principessa indiana in posa in uno scatto del 1924. «Arrestata dalla Gestapo nella Parigi occupata», recita la didascalia, «con l’accusa di aver venduto i suoi gioielli per aiutare degli ebrei a lasciare il Paese». In queste poche righe la giornalista culturale del «Corriere della Sera» coglie un invito a compiere un viaggio decennale che racconta nel nuovo libro Il segreto di Amrit Kaur, in uscita il 6 settembre per Feltrinelli.

Non è solo la promessa di alienazione terapeutica negli scenari orientali e la seduzione di una storia dimenticata a indirizzare Livia Manera sulle tracce che una principessa indiana ha lasciato di sé nella prima metà del Novecento. In questo grandioso reportage giornalistico dove la cronaca puntuale si regge sul rigore accademico di un saggio storico, troviamo le ragioni umane di un dialogo tra donne di epoche diverse che condividono la sete di evasione da un presente troppo stretto. «In un momento della mia vita in cui il senso di perdita era così intenso da oscurare sia il passato sia il futuro — spiega l’autrice — desideravo capire che cosa avesse spinto una principessa del Raj a lasciare l’India per Parigi negli anni Trenta; e soprattutto desideravo scoprire che cosa l’avesse trattenuta là finché era stato troppo tardi».

Collaborazione internazionale

L’arrivo del volume nelle librerie italiane precede di qualche settimana la pubblicazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti

Il tempismo, almeno nella giovinezza di Amrit Kaur, non sembra un problema. Nata nel 1904, nel Nordovest dell’India, con un nome che può fungere da prefazione a questo libro — Amrit in sanscrito vuol dire immortale — cresce in un periodo di relativa pace tra gli Stati indiani. Frequenta un collegio inglese nel decennio in cui si affermano rivendicazioni femministe e mode culturali d’Oltreoceano. Nel suo portagioie arrivano le maestrie che i fratelli Cartier mettevano a punto nel laboratorio parigino. Persino la fine della Grande guerra rappresenta un’opportunità per il suo status: il padre acquisisce prestigio internazionale con la partecipazione alla Conferenza di pace di Versailles. Le cose cambiano quando è costretta a tornare in India, nella cittadina di Mandi, per sposare un principe proveniente da una formazione tradizionalista, lontana anni-luce dalla modernità che aveva respirato in Europa.

«C’erano pochi dubbi sul fatto che Amrit Kaur fosse stata infelice», osserva la giornalista. «E non era l’unica donna nella sua posizione ad avere sofferto in quel luogo così legato a tradizioni e superstizioni». Lo leggiamo nei giornali dell’epoca che si aprono sulla scrivania dell’autrice, tra commenti di amici e studiosi coinvolti in un’empatia corale per il destino di quella principessa ribelle. Apprendiamo da un’intervista rilasciata al «New York Herald Tribune» della partecipazione di Amrit Kaur al movimento per i diritti civili delle donne in India, arrivando ad accusare pubblicamente Gandhi di aver posposto la questione femminile alla lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra. Quando, grazie alla poligamia legale, il marito convola a seconde nozze, Amrit parte per un viaggio in Europa, dal quale non farà più ritorno. Lì ad attenderla sarà la libertà — civile, culturale e sessuale — che scalpitava senza darle tregua, ma anche l’orrore di una prigionia inimmaginabile in un campo di concentramento nazista.

Si legge come un mystery avvincente la storia che Livia Manera ha ricostruito nello studio meticoloso di documenti scovati alle prefetture di Parigi e Londra, setacciando biblioteche e volumi fuori commercio, in un confronto equilibrato tra storici e biografi, mercanti di pietre e nobili decaduti. A questa «vertigine del dettaglio» che tormentava già Calvino e Philip Roth, al quale l’autrice ha dedicato uno dei ritratti raccolti in Non scrivere di me (Feltrinelli 2015) e due documentari, nel racconto di Manera subentra l’esigenza umana di dare risposte alle persone che via via incontra nelle sue ricerche. Come quelle che sente di dovere alla figlia della principessa, «Bubbles», ormai ottantenne, che non ha mai trovato una spiegazione all’abbandono materno. Nella sua rassegnazione l’autrice riconosce questioni personali irrisolte. E ci mostra come le storie di altri, per quanto lontane, possano guarirci dalla nostra, per la loro capacità di trasportarci in una terra di nessuno dove il pronome «io» diventa un «si» impersonale: come vuole l’antica saggezza indiana e come prescrive la più recente deontologia giornalistica o più semplicemente quell’innata o acquisita disposizione di chi scrive, a immedesimarsi nelle vite di altri dimenticandosi della propria.