il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2022
Gorbaciov raccontato da Achille Occhetto
“La prima volta che incontrai Michail Gorbaciov fu a Mosca, nel 1987, da vicesegretario del Pci”. Achille Occhetto sgrana il rosario delle memorie personali. Con l’ultimo custode del comunismo sovietico ha vissuto in parallelo: mentre il primo tentava di riformare l’Urss, lui si apprestava a cambiare il nome e il simbolo del più grande partito comunista d’occidente. “Prima di incontrare Gorbaciov – ricorda Occhetto – ebbi una riunione preparatoria con i dirigenti del Pcus e con Egor Ligaciov, che era il suo principale avversario interno. Ligaciov si esibì in un’esaltazione mielosa e ipocrita delle riforme: ‘La perestrojka fa bene al popolo e il popolo vuole bene alla perestrojka’. Io ero allibito: allora non è cambiato niente, mi dicevo. Invece quando finalmente incontrai Gorbaciov, la musica era un’altra. Entrai, mi abbracciò e mi disse: ‘Caro Occhetto, siamo in enorme difficoltà. Il popolo è in condizioni gravissime e il processo di rinnovamento si può tramutare in una catastrofe’. Poi mi fece una confidenza: ‘Il vero avversario sono il partito e i suoi dirigenti’. Qualche anno dopo ho capito sulla mia pelle la verità di quella frase”.
Cosa ricorda dell’uomo?
L’ho visto ancora a Mosca nel 1988 e a Roma nel 1990, subito dopo la svolta della Bolognina. C’era grande cordialità, avevamo un’amicizia personale; la discussione era vera, onesta. Parlavamo di socialismo e prospettiva, di Europa e collocazione dell’Urss. Avevo di fronte un uomo schietto, umanamente ricco e lontanissimo dal linguaggio dei burocrati sovietici. Convenivamo sul bisogno di far uscire il movimento operaio dall’isolamento. Ne avevamo parlato tutti e due, separatamente, con Willy Brandt, l’ex cancelliere socialista tedesco. A tanti anni dalla scissione del 1914, era ora che comunisti e socialisti riprendessero il discorso comune. Gorbaciov parlava il linguaggio della sinistra europea: era per un socialismo nuovo, democratico. Nel 1987, fu una grande rivelazione.
Cosa non ha funzionato?
Punto primo: il popolo russo non era maturo per il processo democratico. Lo vediamo ancora oggi: dopo tanti anni di socialismo reale non si è sedimentata nella coscienza popolare nessuna concezione di socialismo ideale. La vocazione che guida il popolo russo è il passaggio da una autarchia all’altra. La seconda ragione è che Gorbaciov non fu aiutato dall’Occidente. Gli preferirono i suoi successori, cioè Eltsin: il padre spirituale di Putin. Fu interrotto il processo per cui Gorbaciov passerà alla storia: lui ha fallito in Urss, ma ha salvato la pace, ha impedito un collasso cruento che avrebbe portato alla terza guerra mondiale. Fu lui ad aprire i colloqui con Reagan – oggi sembra incredibile – per la distruzione di centinaia di testate nucleari, per il disarmo bilanciato e la sicurezza comune. La colpa vera dell’Occidente è di avere tradito queste aspettative e di non avere proseguito il dialogo. Ora ne paghiamo le conseguenze.
Entrambi vi siete caricati sulle spalle il peso di superare, in qualche misura “uccidere” il comunismo.
L’espressione non mi piace, ma certo tutti e due abbiamo avuto una funzione di rinnovamento rispetto alla tradizione. Lavorammo in condizioni molto diverse. La nascita del Pds avviene nella tradizione del comunismo italiano, che conteneva in sé i germi della svolta. Con Berlinguer infatti alcune condizioni importanti erano state già poste, anche se non era stato compiuto il passo fondamentale: quello di dire con chiarezza che i regimi comunisti non solo erano illiberali, ma non avevano niente di socialista. Mancarono il tempo e il coraggio, ma la svolta della Bolognina fiorì su semi che erano stati gettati in precedenza e infatti ebbe un sostegno ampio tra i comunisti italiani, anche nelle consultazioni di fabbrica.
Ma poi finisce male.
Il progetto aveva un orizzonte più lungo, doveva permettere una fusione ideale tra le varie componenti della sinistra italiana, invece si è preferita prima la via degli inciuci e poi quella dell’unione a freddo di apparati partitici. Si è persa la tensione verso una prospettiva di più ampio respiro.
E Gorbaciov cos’ha sbagliato?
Uno dei suoi errori è stato non porre il tema del cambiamento del partito. Nel 1991 gli scrissi una lunga lettera, in cui sostenevo – spiritosamente – che dovesse fare una svolta anche lui. Non ebbe il tempo di rispondermi, perché alcuni giorni dopo fu arrestato. La mia svolta non ha ucciso il partito comunista: è crollato su se stesso, era morto da tempo come movimento internazionale. Credo semmai di aver avuto il merito di capirlo un po’ prima che succedesse.
Per entrambi, la rottura con la tradizione ha comportato un peso emotivo e affettivo enorme.
Non c’è dubbio. Era la rottura anche con compagni di una vita, un tipo di scontro a cui non eravamo abituati. L’acme della sofferenza fu al Congresso di Bologna: mi commossi perché la mia relazione fu salutata da un’ovazione molto grande e venne a stringermi la mano anche Ingrao, che era il maggiore oppositore della svolta. In quel momento pensai che fosse un nuovo inizio, mi sbagliavo profondamente. Non tenevo conto di certi elementi marci all’interno della tradizione comunista. Anche Gorbaciov ha patito molto umanamente, ma mi ha colpito come fosse capace di parlarne sempre con grande serenità. Pure nella sofferenza aveva gli occhi brillanti e un sorriso in volto. Era un uomo estremamente positivo, aveva un carattere che gli ha permesso di attraversare questo guado terribile. La sua più grande sofferenza fu la reazione del popolo russo: non l’hanno capito e poi l’hanno emarginato in modo molto pesante.
Oggi è dimenticato in Russia, mentre lo celebra lo stesso Occidente che l’ha tradito.
L’Occidente, malgrado tutto, non può fare a meno di celebrarlo, perché oggi appare con chiarezza che Gorbaciov era il faro di un’altra Russia, rispetto a quel mostro che è nato dalle vicende successive. Se l’Occidente non vuole tradire le sue anche ipocrite vocazioni liberali, non può che ricordare Michail Gorbaciov con affetto.