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 2022  settembre 01 Giovedì calendario

L’incendio al Narodni Dom di Trieste

L’incendio del Narodni Dom
È noto l’episodio dell’assalto e dell’incendio del Narodni Dom a Trieste (la casa del popolo slovena, meglio conosciuta con il nome dell’hotel Balkan presente nello stesso edificio) avvenuto la sera del 13 luglio 1920 per opera dei fascisti capitanati da Francesco Giunta. L’autorevole storico Renzo De Felice lo definisce in assoluto “il vero battesimo dello squadrismo organizzato” (R. De Felice, “Mussolini  il rivoluzionario. 1883-1920” Einaudi, 1965).

Attorno alle ore 17, 30 si erano riuniti in piazza Unità d’Italia nazionalisti e fascisti per manifestare contro i cosiddetti jugoslavisti e gli slavi in genere ritenuti responsabili dell’uccisione, avvenuta due giorni prima a Spalato, del capitano Tommaso Gulli, comandante della nave militare Puglia e del motorista Aldo Rossi. La manifestazione a Trieste degenerò in innumerevoli atti di violenza e poi di devastazioni ai danni soprattutto della comunità slovena. Nella giornata, coinvolti nei disordini vi furono due morti, il diciassettenne apprendista cuoco del ristorante Bonavia, pugnalato in piazza Unità e un ospite dell’Hotel Balkan che si buttò da una finestra dell’edificio in fiamme. Vi furono altresì  più di venti feriti. Tra questi un reduce nato a Caltanissetta ma residente a Trieste, superstite di due fratelli morti in guerra, il tenente Luigi Casciana del 142° reggimento di fanteria: ricoverato all’ospedale civile, ivi operato di laparotomia, la sera del 19 venne trasferito all’ospedale militare dove morì dopo poche ore. Una morte inopinata su cui venne aperta un’inchiesta. Il neo-costituito fascio di combattimento triestino rivendicò immediatamente con un comunicato la morte del Casciana come di un camerata e di un eroe fascista.
Da che il regime fascista giunse al potere, il suo nome venne celebrato con varie iniziative.

Veniamo ai giorni nostri. Il 14 maggio 2009 l’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia fa richiesta al Sindaco di Trieste di intitolare una via al Casciana. Precedentemente il quotidiano Il Piccolo aveva dato un certo rilievo (Il Piccolo, 22-4-09) ad una lettera pervenuta dalla  nipote del Casciana (Il Piccolo, segnalazioni, 19-4-09; LFVTLC, pag.117) la quale, sulla scorta di alcune memorie famigliari attinenti il nonno paterno, ventilava una stessa richiesta. L’articolo, a firma del giornalista Pietro Spirito, non pretendeva di fondarsi su particolari conoscenze storiche. Ma ecco che, come supporto alla richiesta toponomastica, viene pubblicato nel marzo 2010 a cura della fondazione Rustia Trane un libretto documentario che si intitola “La falsa verità sul Ten. Luigi Casciana”. Ne è autore Sergio Siccardi, un noto valente musicista che si presta come occasionale ricercatore di storia; postfazione di Renzo De Vidovich.
Notiamo che all’epoca della richiesta da parte dell’UNUCI si era nel pieno delle aspre polemiche in città sull’opportunità o meno di re-intitolare uno spazio pubblico a Mario Granbassi, un giornalista fascista.
Anche in questo caso si tratterebbe di una re-intitolazione, giacché durante il fascismo l’antica e attuale via della Geppa si chiamava Via Luigi Casciana.
L’operazione di rivisitazione storica ha un preciso significato: bisogna dimostrare che il Casciana, lungi dal poter essere annoverato tra gli “eroi fascisti” caduti nella prima ora combattendo per l’ideale politico contro gli elementi antinazionali, era invece un ufficiale del regio esercito caduto nell’espletamento del proprio dovere e, poiché comandato di proteggere il Balkan alla testa di un plotone, un dovere non di guerra ma di peace keeping.
In fondo tutto mirerebbe ad una specie di nulla osta toponomastico che comporti la sconfessione della faziosità tipica del tempo in cui il “fascismo di frontiera” prendeva piede, ma anche, simmetricamente, della damnatio memoriae conseguente che si manifestò già tra il 25 luglio e l’8 settembre del ’43 con una delibera toponomastica che, per l’incalzare degli avvenimenti, ebbe esito solo nel 1946 (LFVTLC, pagg 106-113) quando si ristabilì l’antico toponimo.

Niente da dire sul piano delle intenzioni, che di solito corrisponde al piano politico, ma è sul piano storiografico che l’operazione appare debolissima, così da spingerci a ripercorrere i punti della ricerca in modo un po’ più esaustivo, non tanto perché il libro, presente in alcune biblioteche e sedi istituzionali, si presta ad essere criticato per diverse ragioni, ma perché va ad incrementare errori, falsificazioni o quantomeno l’evanescenza storiografica che immediatamente saltano agli occhi quando sull’argomento si fa una escursione in internet.
Veniamo alle critiche. La documentazione è assolutamente unilaterale, senza che per questo si debba minimamente mettere in dubbio la buona fede del ricercatore che, come peraltro qualsiasi storico DOC, professionale e accademico, cerca quello che gli pare e lo riporta fedelmente. Però è impossibile non rilevare che tutta la documentazione si riduce esclusivamente a stralci giornalistici tratti dal Piccolo e dall’Era Nuova (una breve comparsa nella stampa giuliana voluta da alcuni repubblicani anch’essi “di confine”, ostili, in quanto tali, al nascente regno jugoslavo e al suo valore di richiamo nazionale per gli Sloveni) o a documenti ufficiali, relativamente interessanti proprio in quanto ufficiali, eppure presi per oro colato. Impossibile non rilevare che sono assenti alcune banalissime pezze d’appoggio di solito facilmente reperibili, modesti quanto basilari documenti che, quando non risultino falsificati o occultati, hanno il pregio di sottrarsi a opinioni e interpretazioni. Infine, nel susseguirsi dei resoconti giornalistici, dei documenti ufficiali e delle testimonianze ufficializzate, ci sono tante e tali contraddizioni da sfiorare la comicità. Ovviamente nessun addebito di questo al ricercatore, ma anche ad uno Sherlock Holmes cadrebbero le braccia se volesse arrivare a qualche verità sulla scorta  di tali verba relata.

In fondo viene il dubbio che il Siccardi non riesca a dipanare una supposta matassa di tendenziosità non per cattiva volontà, ma per il semplice fatto che si è trovato a dover sciogliere un nodo già stretto novant’anni prima. Equivoci, ambiguità, falsità, omissioni si sono senz’altro assommati e strutturati per gli annali in quel torrido luglio del ’20. Probabilmente nessun vero complotto, forse solo una naturale propensione in un gruppo di potere per una verità invece che per un’altra.

Chi aveva all’epoca a Trieste il potere di ricevere e dare informazioni che avessero il crisma di una “obiettività ufficiale”, quasi un ossimoro, bella pronta per la Storia? In sostanza quattro uomini, nessuno dei quali fascista, quando il fascio a Trieste aveva neanche 200 tra iscritti ed affiliati segretamente, ma tutti quattro uomini di carriera, e che carriera, all’ombra del PNF.
Il commissario governativo, massima carica amministrativa che ereditava i poteri civili del governatore militare Petitti di Roreto era Antonio Mosconi, grand commis per vocazione e pragmatico per carattere. Lodato per il buon lavoro fatto a Trieste nell’integrazione delle nuove province nell’economia nazionale, dei cui esiti invece egli stesso si dichiarerà scontento, sarà negli anni ’30 addirittura ministro dell’economia.
Il suo vice e poi successore, Francesco Crispo Moncada, un siciliano dai modi squisiti, ambiziosissimo e con una certa passione per l’intrigo, lodato per il buon lavoro fatto nell’integrazione delle nuove province nella cultura nazionale, sarà, passati quattro anni, addirittura capo della polizia, con Federzoni ministro degli interni. Come poliziotto non dimostrerà grande sagacia: evitato il primo attentato a Mussolini di marca massonica, (Zaniboni e Capello) non riuscirà a prevenire i successivi attentati della Gibson, di Lucetti e di Zamboni. Da alcuni toni della corrispondenza tra Mosconi e Crispo Moncada par di capire che la loro coabitazione in prefettura non fosse un idillio.
Il questore di Trieste, Adolfo Perilli, poliziotto nato e scafato, che sa come vanno le cose del mondo: sarà questore di Roma, sempre dal ’24, probabilmente cooptato dallo stesso Crispo Moncada. Di lui non si ricorderà altro che lo scarso impegno nelle indagini sul delitto Matteotti e, viceversa, il grande impegno nelle indagini sul mostro di Roma, il povero Girolimoni; o magari anche lo scioglimento manu militari del sindacato dei giornalisti a Roma.
Il direttore del risorto quotidiano Il Piccolo, Rino Alessi, egregio giornalista, sempre in sintonia con il suo pubblico, commediografo di ispirazione liberale ma anche compagno di scuola di Mussolini, ben deciso a non scialacquare questo piccolo personale capitale politico.
Aggiungiamo, per onore del grado, il generale comandante della brigata Ferrara, Ferdinando Spreafico, un bon viveur pronto a vistare e controfirmare qualunque cosa purché non gli rompessero le scatole. In attesa di pensionamento, sarà maestro massone e, del tutto platonicamente, succederà a D’Annunzio come “Reggente del Carnaro” quando la “reggenza”  a Fiume era già un ricordo.
Presto però tutti dovranno fare i conti con un outsider, privo di poteri ma deciso uomo d’azione, raffinato comunicatore ben fornito di agganci personali e di sagacia politica: Francesco Giunta, un avvocato toscano mandato da Mussolini su un  fronte in questo momento cruciale, là dove il nemico può essere più facilmente colpito assommando suoi caratteri ideologici con caratteri (anti)nazionali. In realtà non è così, non ancora: nazionalismo slavo e socialismo sono ben lontani dall’integrarsi.

L’epoca è quella tra l’armistizio di Villa Giusti e il Trattato di Rapallo. I confini orientali ed adriatici non sono né certi né delineati in attesa che la Società delle Nazioni batta un colpo. La situazione già precaria per le contrapposizioni etniche nei territori ex asburgici occupati dall’Italia ne è drammatizzata. Le autorità di cui sopra si sentono incalzate dal nazionalismo slavo che si polarizza in riferimento al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni neo costituito, dal vento bolscevico che soffia in Europa (non dimentichiamo che in Italia l’epoca rientra nella definizione icastica di “biennio rosso”) e dal nuovo nazionalismo italiano postbellico, la cui natura non sono ancora in grado di comprendere. I fascisti sembrano ben più gestibili di un D’Annunzio.
È questa la cornice storica in cui avvengono i drammatici fatti collettivi e i tragici fatti individuali di cui tratta “La falsa verità sul Tenente Luigi Casciana”.
Nel rivisitare in chiave storica quei fatti seguiremo per un po’, come traccia, le stesse sequenze della sopraccitata pubblicazione.

Il cruento episodio di Spalato venne riportato dai giornali italiani in generale e dal Piccolo in particolare, in chiave drammaticamente patriottarda, sulla scorta di notizie parziali, in opposizione simmetrica peraltro con le notizie riportate dai giornali jugoslavi. I testimoni italiani riferivano che dall’incrociatore leggero Puglia, che stazionava a Spalato, era partito un MAS per andare a recuperare due ufficiali di marina assaliti da dimostranti slavo-nazionalisti e che, nell’avvicinarsi alle banchine, era stato attaccato dai gendarmi serbi a colpi di fucile e di bombe che uccidevano il capitano Gulli e il motorista Rossi e ferivano altri marinai; se c’era stata qualche vittima tra gli Slavi significava che i gendarmi avevano rivolto le armi anche verso la folla che tumultuava e li premeva (LFVTLC, pag.12).  Gli Slavi riferirono invece di gravi provocazioni dei marinai italiani, di una bandiera sottratta e bruciata a bordo del Puglia, del fuoco aperto senza motivo dal MAS sulla folla che assiepava la riva, uccidendo un civile e ferendo altre persone oltre due gendarmi.
Spalato, estranea alle zone di occupazione italiana contemplate a Villa Giusti, era amministrata dalla Jugoslavia  (Il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni) e l’ordine pubblico era affidato a una gendarmeria serba. Nel porto stazionavano diverse navi interalleate, compreso il naviglio italiano e anche una potente squadra americana: al comandante di questa, ammiraglio Andrews, sarà affidata l’inchiesta ufficiale per appurare i fatti. Per quanto non c’è ragione di dubitare dell’obiettività e neutralità di principio dell’alto ufficiale, è certo che gli USA non si struggevano per l’Italia, sia perché questa non sembrava entusiasta della dottrina Wilson, ossatura ideale della Società delle Nazioni, sia per l’anomala presenza a Fiume di D’Annunzio, che sul Times veniva definito di volta in volta the Italian Bard o the mad satrap. Inoltre Andrews non ignorava che l’ammiraglio Millo, governatore della Dalmazia ovvero della piccola parte promessa all’Italia, era in grande sintonia con un D’Annunzio non estraneo a qualche atto di pirateria avvenuto tra Fiume e Zara e ricordava che, qualche mese prima del suo proprio comando una rivoluzione da operetta a Traù aveva creato non pochi guai al suo predecessore e rischiato di far scoppiare una guerra tra Italia e Jugoslavia sotto i suoi occhi. Lo storico Claudio Silvestri nel 1961 pubblica il documento ufficiale ad esito dell’inchiesta, che non crediamo valga la pena di tradurre dall’inglese (all. n° 1), osservando che differisce poco e solo in alcuni punti fondamentali da un altro documento, posteriore e che però pare ignorarlo, questa volta in francese, la nota del Trumbic circa i fatti di Spalato, intesi come pretesto per i successivi fatti di Trieste del giorno 13 (all. n° 2). Vediamo questi punti: non è vero che la bandiera sia stata bruciata, anzi, fu consegnata agli americani, non è vero che dal Mas si sia sparato così, per gusto di sparare, anzi, alcuni minuti prima una lancia, anch’essa in avvicinamento alla banchina era stata fatta segno di colpi di rivoltella, senza conseguenze; poi il capitano Gulli e il colonnello Kostic della gendarmeria, che parlava italiano, stavano parlamentando per assicurare l’incolumità degli ufficiali italiani ancora a terra quando il conflitto più grave si scatenava per il disorientamento improvviso (era buio) di tutti gli attori armati appena scoppiò una bomba in mezzo alla folla, forse accidentalmente, ma che marinai italiani e gendarmi serbi intesero malauguratamente entrambi come atto ostile. Morti e feriti risultano equamente distribuiti nei due fronti.

Le note di protesta che si incroceranno nei giorni seguenti tra il ministro degli esteri del governo Giolitti, Carlo Sforza, grande diplomatico, mazziniano di ferro e uomo di incredibili avventure politiche, e il suo omonimo iugoslavo Ante Trumbic, di madrelingua italiana, rispecchieranno le rispettive interpretazioni con toni più morbidi di quelli nella stampa, perché i due già si trovavano a discutere di persona a Spa nella sede della conferenza interalleata degli ambasciatori, che sfocerà poi in novembre nel Trattato di Rapallo.

Giolitti temeva l’isolamento dell’Italia nel consesso degli alleati, ma a Trieste tirava un’aria diversa, c’era un forsennato ottimismo sulla possibilità di forzare le cose sui confini, si dava un incredibile credito al D’Annunzio “venturiero” ancora in piena “ventura”; la volontà di qualche vendetta di guerra non accennava a sopirsi né quella di considerare la “vittoria mutilata” o, viceversa, la sconfitta dell’Austria come propria sconfitta. Il nazionalismo invadeva le coscienze di chi non nutriva fede nella palingenesi wilsoniana o in quella socialista. Mussolini sfondava una porta già socchiusa. Lo stesso Mosconi è sensibile alle esigenze di alcuni potentati economici stretti in cordata come azionisti del Piccolo, il quotidiano risorto dalle ceneri, che interpretano il nazionalismo come propedeutico all’allargamento dei mercati (un ex economo dei Cosulich, in punto di morte riferirà sui pagamenti che versava per conto dei padroni ai fascisti; sono le Assicurazioni Generali a fornire una sede al fascio). Sta di fatto che la situazione dell’ordine pubblico è quasi da far West: il revolver è un accessorio comune tra gli “arditi” diversamente colorati e qualche fuorilegge che assale i treni nel contado. Un nuovo corpo di polizia, la Guardia Regia, creata dal Nitti un anno prima con funzioni antisommossa, è qui più strabica che nel resto d’Italia, guarda alle organizzazioni operaie ed a quelle slovene distogliendo gli occhi da ben altri ribellismi. Così è a Trieste che si presenta la buona occasione di ottenere per lo squadrismo organizzato dal Giunta un consenso senza se e senza ma, che intercetti i sentimenti di coloro che temono il disordine o che prima di tutto si sentono Italiani. Ma anche, cosa questa importantissima per Mussolini, i sentimenti dei militari. Che per questo intendimento ci fosse più che qualche prospettiva, vale una testimonianza non certo di sinistra: “Nella Venezia Giulia s’era andato creando un ambiente di congiura contro l’atteggiamento del governo di Roma. L’esercito era con noi. Non bisogna dimenticare che nella Venezia Giulia c’erano ancora alcune centinaia di volontari giuliani in servizio regolare (Bruno Coceani, “L’epopea della “Trento-Trieste” nelle terre adriatiche e la spedizione di Fiume”, Trieste, 1933).

Le notizie da Spalato arrivano a Trieste tempestive se non accurate. La stampa fa il suo per infiammare gli animi, ma colpisce soprattutto il tono di ufficialità con cui il Piccolo diffonde al mattino il proclama o meglio, l’ordinanza del Fascio di Combattimento con cui praticamente si comanda alla cittadinanza di partecipare alla protesta quella stessa sera. “Il consiglio direttivo del Fascio Triestino di Combattimento ci incarica di muovere appello ai cittadini di tutte le classi, senza distinzione di parte, perché partecipino ad una manifestazione di solidarietà nazionale. Tutti gli edifizi dovranno esporre la bandiera a mezz’asta e tutti i negozi, dalle 17 in poi, si dovranno chiudere in segno di lutto. Il Fascio di Combattimento invita la cittadinanza a raccogliersi alle ore 18 in piazza dell’Unità. Perle ore 17 i fascisti ed il gruppo di azione sono convocati nella sala Dante.”(Il Piccolo, 13-4-20; LFVTLC, pag. 15).
Il questore Perilli  credeva, come molti funzionari governativi dell’epoca, nella strategia di semplice contenimento delle velleità dei fascisti, non pone “alla manifestazione limitazioni di sorta” ma dispone misure di sicurezza imponenti sollecitando l’intervento dei carabinieri, delle guardie di finanza, delle guardie regie e dell’esercito, riservando alla polizia compiti di coordinamento e di investigazione. Misure perfette tecnicamente, sia per il presidio di possibili obiettivi in caso di violenze sia, per esempio, nel presidiare massicciamente (ma forse troppo discretamente) la piazza Unità da due parti, dal palazzo del Governo e da quello del Lloyd (LFVTLC, pagg. 16-19).Tuttavia sembra gli manchino quelle informazioni che probabilmente non mancano al Giunta (a meno che non le condivida segretamente), sugli umori all’interno della caserma Oberdan, di fronte al Balkan, dove sono acquartierati i soldati del 47° e del 48°  reggimento di fanteria della Brigata Ferrara e  dove egli chiede di predisporre un contingente di 250 militari pronto ad intervenire a rinforzo di 100 guardie regie e 60 carabinieri. Anticipiamo che da quei militari alla fine, in  seguito a circostanze non univocamente riportate, partiranno un numero imprecisato ma cospicuo di colpi di moschetto che si sommeranno a quelli sparati contro il Balkan dalle guardie.

Quanta fu la folla e come era composta sia prima che dopo l’arrivo dalla parte del Caffè degli Specchi del drappello di una trentina di fascisti, con in testa il Giunta ed una bandiera abbrunata, non sarà possibile appurare. Poche testimonianze neutrali, attendibili perché di semplici osservatori, sono state trascritte, e anch’esse sono incongruenti o per l’ora o per la visione troppo settoriale di ciò che accadeva. Abbiamo, sia per la manifestazione in piazza Unità sia per ciò che accadde dopo, grande dovizia di resoconti giornalistici ed altresì di relazioni ufficiali, la cui parzialità sentiamo il dovere di bilanciare con alcune testimonianze de visu, sicuramente poco imparziali anch’esse, ma almeno più naif.
Il questore Perilli, nella relazione che trasmette alle autorità il giorno stesso, riferisce 2.000 persone, ma si tratta di una folla composita, nazionalisti, fascisti (non più di una cinquantina ben organizzati e raccolti intorno alla fontana dei quattro continenti sul cui parapetto salgono gli oratori, anch’essi quattro), curiosi, passanti, osservatori critici od ostili (per esempio, due testimoni che  ammettiamo in contro altare erano tra questi ultimi). Non si spiegherebbero altrimenti, se non si crede nella presenza di kamikaze, i tafferugli e i ferimenti che avvengono qua e là in piazza, riferiti nelle cronache con particolari di volta in volta diversi.
Fatto si è che un giovane diciassettenne di Novara, tale Giovanni Nini, apprendista cuoco al ristorante Bonavia di piazza Unità, viene accoltellato nei pressi dei portici del palazzo comunale. In un susseguirsi di versioni alla “Rashomon” si riferisce che: “ricevette tre pugnalate all’addome mentre un gruppo di manifestanti inseguiva una persona che passava parlando in croato” (Il Piccolo, 14-7-20; LFVTLC, pag. 23), è “un ex combattente” (annuncio fatto dal Randi dopo l’arringa del Giunta, forse con un occhio rivolto ai diversi militari, soprattutto ufficiali, presenti. [idem]), viene colpito da uno di quattro tizi “dall’aspetto di braccianti” nell’atto di parare una pugnalata destinata ad un ufficiale che aveva redarguito i quattro e che era arretrato “sguainando la sciabola” (Il Piccolo Sera, 14-7-20; LFVTLC, pag. 31-32), “non il minimo indizio si ha dell’uccisore del giovane Nini, per cui l’autorità brancola nel buio” (L’Era Nuova, 17-7-20; LFVTLC, pag. 63), “mentre parlava avvocato Giunti fu proditoriamente ucciso cittadino italiano da slavo che riuscì dileguarsi.stop” (telegr. Colonnello Aldo Giungi RR CC, all. n° 3), “il prof. Randi comunicò ai dimostranti che in quell’istante da uno sloveno- che era riuscito a dileguarsi- era stato ucciso proditoriamente, con due pugnalate certo Nini Giovanni” ( relazione Colonnello Aldo Giungi RR CC, all. n° 4), “Ad un tratto ad un’angolo della piazza nacque un tafferuglio e si seppe che da nazionalisti jugoslavi presenti era stato accoltellato un nazionalista italiano” (relazione Questore Adolfo Perilli, all. n° 5), “La manifestazione fu interrotta da un fatto luttuoso, l’uccisione del diciassettenne Giovanni Nini da parte di uno jugoslavo che portava sul bavero il distintivo degli ufficiali del neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni” (postfazione di Renzo De Vidovich, LFVTLC, pag. 121). Solo a titolo di curiosità, lo stesso De Vidovich nel 1999 in una lettera al Corriere della Sera in risposta ad un articolo di Tullio Kezich darà per certo che il Nini “fu infilzato dalla sciabola di un ufficiale jugoslavo perché manifestava per la libertà della Dalmazia e contro l’esercito di Spalato” ( C. d. S., 17-8-99, pag. 17): che si confonda con  l’ufficiale che il Nini voleva difendere, come riportato dal Piccolo?. Invece, solo quattro anni dopo i fatti, il prefetto ex commissario civile Antonio Mosconi scriverà: “…l’uccisione di un cittadino in un comizio di protesta, ritenuta (!) opera di uno slavo…” (Antonio Mosconi, “I primi anni di governo italiano nella Venezia Giulia”, Lib. Cappelli Editore, Bologna- Trieste 1924). Ma, sorpresa!: sarà imprevedibilmente Roberto Farinacci, proprio lui, il “ras di Cremona” a mettere tutti in riga: “erano stati i comunisti (!) slavi a colpirlo? Fu creduto da tutti; ed anche oggi appare l’ipotesi più probabile; così è ozioso discuterla.” ( Roberto Farinacci, “Storia della rivoluzione fascista”, Cremona1937- II vl. Pag. 21). Allora c’è sufficiente spazio perché qualche storico di sinistra, come Carlo Schiffrer, veda quel pugnale come un’arma fascista (Carlo Schiffrer, in Trieste, riv. N° 7, maggio-giugno 1961) e lo storico sloveno Cermelj  possa scrivere: “Durante il raduno un italiano fu pugnalato a morte nella piazza, perché i fascisti lo sospettarono essere un Dalmata” (Lavo Cermelj, “Life and Death Struggle of a National Minority – The Jugoslavs in Italy”, Ljubljana, TISK 1945)
Che dire? Solo che in piazza Unità vengono pugnalati e ridotti in fin di vita altri giovani, effettivamente perché parlavano in una lingua slava o perché identificati come slavi, il fuochista del Lloyd Antonio Boicovich e il bracciante Giovanni Ussai, poi, secondo le cronache, Mario Frassalich e Antonio Modacavez, che non compare tra i nomi registrati in ospedale e forse è ferito altrove… Colpevoli e testimoni sembrano tutti “dileguarsi” cosicché, non solo per il povero Nini, ma ben più in generale, “l’autorità brancola nel buio”. Invece il fascio di combattimento non brancola e organizzerà per il malcapitato ragazzo un bel funerale.

Mentre ancora echeggia lo slogan del Giunta, riferito ai 2 morti di Spalato, “occhio per occhio, dente per dente” (attendeva da mesi un’occasione come questa: dopo dodici anni scriverà che quanto accadde “fu un capolavoro”) (Francesco Giunta, “Un po’ di fascismo”, Milano 1932), la folla lascia la piazza a gruppi che imboccano diverse strade ma convergono verso la via Mazzini, dove un gruppo più agguerrito o, per chiamare le cose con il loro nome, un manipolo, dà l’assalto a colpi di rivoltella alla sede della delegazione jugoslava ovvero consolato ufficioso. I carabinieri di guardia impediscono l’ingresso al portone, scoraggiano l’uso delle armi, ma non il successivo lancio di pietre e la scalata al balcone dal quale viene ritirata una bandiera, in verità, italiana.  Si corre poi verso il Balkan, dove già attendono gruppetti di manifestanti ma anche un plotone di carabinieri che sbarra il passo ai sopraggiungenti all’angolo di via Galatti da via Filzi ed a quelli, meno numerosi, che arrivano da piazza Vittorio Veneto  Al terzo piano, occupato dalle stanze d’albergo, ad una finestra è esposta una bandiera italiana abbrunata. Sono le 18,30 circa.

Nel raccontare quello che verosimilmente accade nella mezz’ora successiva è d’obbligo essere molto sobri e schivare per quanto possibile tutte le incongruità nelle testimonianze e nelle ricostruzioni, da riportare eventualmente come commento. Contraddittorie nei particolari le prime, fastidiosamente tendenziose, retoriche o superficiali le seconde. Sull’episodio circoscritto la documentazione appare sbilanciata causa purtroppo la nostra debolezza di accesso a fonti slave dell’epoca. Però i consolati delle “potenze alleate” avevano fior di informatori in città e avranno concordato in parte i resoconti del fatto da spedire ai loro governi o agli ambasciatori a Spa. Rintracciare i loro dispacci, probabilmente abbastanza obiettivi, non dovrebbe essere impossibile per qualche ricercatore meglio attrezzato di noi.

I primi manifestanti sono alle prese con i carabinieri e qualche poliziotto, premendo per raggiungere un portone di ingresso in via Galatti, più debole di quello principale e meno controllabile dalla caserma prospiciente (era questa un lungo e basso edificio all’angolo tra Via Carducci e la piazza Oberdan, allora aperta più ad occidente  e sgombra verso via Filzi): dall’alto viene lanciato un ordigno esplosivo che scoppia a terra ferendo alcune persone. In rapida sequenza c’è uno sbandamento dei dimostranti, uno scambio di pistolettate tra questi e qualcuno che sembra sparare da una finestra del piano occupato dall’Hotel su via Galatti,  nel caos generale che si determina, lo scoppio di un secondo ordigno. Esce dalla caserma un plotone di guardie ed apre il fuoco contro l’edificio. Gli assedianti si accalcano alle porte, qualcuno entra, sparge benzina ed appicca il fuoco agli arredi del teatro tra pianoterra e piano elevato o mezzanino. Già esce il fumo quando anche dei soldati usciti dalla caserma aprono il fuoco contro i piani alti e il tetto da cui sembra che si risponda al fuoco. La sparatoria viene meno. Scarso personale delle varie attività ospitate nell’edificio e una dozzina di ospiti dell’albergo e di alcuni appartamenti privati sfollano attraverso il cortile dell’adiacente palazzo Galatti ed escono in via della Geppa. Vengono identificati da carabinieri e polizia. Intanto da una finestra del secondo piano prospiciente Piazza Oberdan, una donna e poi un uomo si buttano nel vuoto, la prima cade su un telo teso da alcuni astanti e si ferisce, il secondo cade sul selciato e muore sul colpo. Mentre le fiamme divorano dall’interno il Narodni Dom (brucerà fino al mattino) una folla assiste allo spettacolo intralciando l’opera dei pompieri che arrivano sul posto alle 19,30. In tutto questo tempo non mancano intorno tafferugli e ferimenti. Gruppi di squadristi vanno ad assalire istituzioni, negozi ed abitazioni di Sloveni e a bastonare quanti ne incontrano. La magistratura non riuscirà mai a provare atti di violenza da parte di qualcuno degli assediati nell’edificio del Balkan.

Questo è il resoconto più asciutto che si può desumere dalle cronache dei giorni dopo, dai rapporti ufficiali, da varie testimonianze, oltre a quelle raccolte per iscritto tra i militari di stanza nella caserma dal colonnello comandante Elia per conto del generale Spreafico, a sua volta richiesto di relazionare l’accaduto dal comando della X Divisione comprendente la brigata Ferrara.
Contraddizioni, si diceva: non c’è neanche una che si dica una, tra le 8 testimonianze dei militari diligentemente riportate in “La falsa verità sul ten. Luigi Casciana”, in cui venga indicata la medesima finestra del medesimo piano, da cui si spari o si buttino bombe,  o che venga descritto lo stesso volume di fuoco.
A onor del vero, può esserci qualche ragione: in luglio alle 7 di sera, visto dalla caserma Oberdan il Balkan appariva in controluce; ma è la stessa architettura dell’edificio a fuorviare chi vuole individuarne i piani inducendolo a scambiare l’ammezzato per il primo e di conseguenza il II° per il III°, dove finisce la zoccolatura in pietra e comincia la muratura in mattoni a vista (questo e il piano superiore erano occupati dall’Hotel Balkan vero e proprio, al pianoterra, ammezzato e primo piano c’erano il teatro, il caffè, il ristorante, una banca, la scuola di musica, il gabinetto di lettura e le sedi di altri sodalizi, all’ultimo piano degli appartamenti). C’è anche da dire che nella zona era cospicuo il fenomeno dell’eco per cui il rumore delle esplosioni certamente riverberava, così qualcuno pensò addirittura a raffiche di mitragliatrice.
Ma torniamo per un momento alla coppia malcapitata che si butta dalla finestra, ovvero al secondo morto della giornata, solo per dare un’idea dell’accuratezza con cui si riportarono le cose in cronaca o nei rapporti ufficiali: si legge di un Ugo Kablek, di Hugo Roblech, di Ugo Rupnik, di un medico lubianese, di un possidente bolzanino, di un farmacista a Veldes, di un custode del Balkan, di un suo ex proprietario, di anni 38, di anni 46, del padre di Paula Tomiusch, giustamente del marito della stessa, che però diventa ora Antonia ora Giuseppina.
In verità appaiono straordinariamente poco accurate anche ben altre registrazioni dalle quali sarebbe lecito attendersi la maggior precisione, quelle  di  accoglimento (prive oltretutto dell’ora) e decorso dell’Ospedale Maggiore,  come peraltro le cartelle cliniche. Manca ogni corrispondenza tra i nomi dei feriti gravi e coloro che risultano ricoverati, per non dire dell’esito. Per quanto riguarda il caso che ci interessa, il tenente Casciana  appare ricoverato  il 13 tra un Boicovich e un  Ussai, entrambi, come abbiamo visto, feriti già in piazza Unità: dapprima si annota una diagnosi di ferita da punta e taglio, poi si corregge, con altra calligrafia, in ferita da arma da fuoco (all. n° 12). Così, immaginando allora un errore madornale in astanteria e qualche sommarietà nella compilazione dei registri, si spiegherebbe un fatto altrimenti clamoroso: anche nei primi resoconti giornalistici lo si dice ferito da coltello in Piazza Unità (Il Piccolo, 14 e 15 luglio, LFVTLG, pag. 28 e 47). Infine, in repertorio, peritonite. (all. n° 13). Non basta, nella cartella clinica risulta ricoverato il giorno 14! (all. n° 10) Anche a  chi non  è uno storico sospettoso, verrebbe qualche perplessità.

Andiamo ora a vedere alcune descrizioni dell’accaduto discordanti in maniera madornale.

Uno storico sloveno che abbiamo già avuto l’occasione di citare, strenuo oppositore del nazionalismo italiano e del fascismo, quarantenne e residente a Trieste all’epoca del fatto, ma che crediamo non essere stato presente quella sera, scrive nel 1932:”Quando l’edificio fu circondato dai tre lati aperti sulla strada, un razzo di segnalazione da nebbia fu gettato dal vicinissimo edificio della direzione delle ferrovie. La detonazione era ovviamente pensata per eccitare vieppiù la folla e allo stesso tempo per essere il segnale di attacco al Narodni Dom, giacché, a cominciare da quel momento un fuoco tambureggiante colpiva tutta la facciata. A questo punto alcuni drappelli delle cosiddette Guardie Regie che operavano in quei giorni come polizia accanto ai carabinieri, furono fatti avanzare in ordine ed aprirono un fuoco continuo di moschetti contro la casa. La prima fila era effettivamente ginocchio a terra, così gli uomini potevano prendere meglio la mira. Nel frattempo i fascisti prelevavano dalle vicine caserme dei pesanti fusti di benzina e li trascinavano sulla scena dell’azione, l’entrata principale e le porte vennero assaltate e la calca rabbiosa si scagliò all’interno dove annaffiarono tutto con la benzina ed appiccarono il fuoco. Durante l’attacco un ufficiale italiano fu ferito seriamente da una pallottola che era rimbalzata dallo stipite di una finestra. Presto l’intero blocco fu in fiamme. La gente all’interno tentava invano di fuggire dalla casa che bruciava. Due entrate erano in fiamme, la terza era bloccata dalla folla e dalle Guardie Regie che avrebbero schiacciato sotto i piedi chiunque uscisse. Intanto le Guardie Regie sparavano senza pietà a chiunque appariva alle finestre o alle porte” (op cit., vers. Inglese 1945, pag. 149).

Il colonnello dei carabinieri Giungi telegrafa: “…Dalle finestre hotel sparati colpi rivoltella e gettate alcune bombe a mano stop Due guardie regie et vicecommissario pubblica sicurezza rimasero feriti stop Reparti truppa guardie finanza et regia guardia stati concentrati presso fabbricato risposero al fuoco col fuoco stop Alcuni dimostranti che riuscirono sfondare porte albergo vi appiccarono fuoco stop Pompieri accorsi non riuscirono domare vasto incendio alimentato latte benzina ivi depositate stop …” ( all. n° 3)

Il questore relaziona serafico: “…Tutto si sarebbe ridotto ad una manifestazione ostile, quando ad un tratto da una finestra del Balkan fu gettata una grossa bomba che esplose con grande fragore ferendo gravemente alcuni dimostranti nonché il v. commissario Valentino. Tosto i dimostranti presero ad esplodere colpi di rivoltella contro le finestre, dalle quali veniva risposto con scariche di fucile e forse di mitragliatrice…cosicché la forza accorsa dovette rivolgere le armi contro l’albergo… la forza pubblica fu impotente ad impedire che, sfondate le porte si appiccasse il fuoco all’edificio…” (all. n° 5)

L’Era Nuova scrive: “Prima ancora che la moltitudine fosse sboccata in via Galatti e in piazza Oberdan, dalla casa slava si cominciò a sentire un crepitio di fucilate. Il rumore si ripercuoteva sinistramente in mezzo alle case: si tirava con particolare intensità dalle finestre della via Galatti contro i dimostranti che arrivavano da via Filzi. A un tratto un rombo più forte: una bomba a mano era stata lanciata dagli slavi sulla via Galatti. Alcune persone dal tetto del Narodni Dom tiravano frattanto anch’esse in tutte le direzioni, persino contro la caserma Oberdan. Allora il picchetto del 47° fanteria della brigata Ferrara uscì dal portone della caserma e ginocchio a terra fece alcune scariche contro gli slavi. Inasprita ancor più dall’ardire di quella gente che veniva a provocare a battaglia in piena città, la folla diede l’assalto a quello che si rivelava più che mai per un nido di serpi, scagliandosi contro sparando le rivoltelle e tirando bombe a mano… Mentre in piazza Oberdan si svolgeva qualche singolo episodio per uno o due slavi che avendo insultato la folla venivano rincorsi, percossi e dalla forza pubblica sottratti sanguinanti al furore popolare…(L’E.N. 14-4-20; LFVTLC, pag. 34). (Possiamo solo osservare che a tirare così delle bombe a mano contro la facciata di una casa, si corre il pericolo di vederle rimbalzare?…)

Il Piccolo, in stile Salgari: “…All’apparire delle prime avvisaglie nella piazza Oberdan, si è veduta una finestra al secondo piano schiudersi e qualcuno affacciarsi, brandendo in pugno una rivoltella. È stato un momento di esitazione e di stupore. Nel gesto era la tragedia: nell’atto la provocazione. Si è udita la esplosione di un primo colpo secco, acuto. Poi ad esso ha fatto seguito una scarica nutritissima di revolverate. La folla si è arrestata sgomenta poi ha ondeggiato, cercando rifugio e protezione dietro qualche riparo. Ma non ha cessato peraltro il fuoco di moschetteria dall’interno. Altre finestre si sono dischiuse del secondo piano, e i proiettili si sono abbattuti sulla folla ancora più numerosi. I feriti sono stati in quel momento parecchi. Nello stesso tempo sul tetto del Balkan erano salite diverse persone le quali gettavano sulla piazza bombe a mano. Grida e gemiti salivano dai cittadini colpiti dalle schegge, mentre le bombe continuavano a cadere con la loro detonazione. La truppa che aveva l’incarico di presidiare la piazza e di opporsi ad ogni violenza è costretta a sparare contro l’albergo perché cessasse così il fuoco di fucileria, come il lancio di bombe a mano. Tutto ciò è durato un venti minuti. I dimostranti attendevano agli angoli delle vie adiacenti. Era nei volti una cupa angoscia e un’ira sorda. Quell’accoglimento a suon di bombe e a colpi di revolver aveva finito con l’esasperare ognuno. Raccolti i feriti e curati: essi furono trovati in numero di dieci circa; alcuni molto gravi. Giovani per la più parte; studenti inermi, come si osservò quando i loro abiti vennero esaminati. Per debellare la gente armata che si annidava dentro l’hotel  ed era salita sul tetto per meglio esercitare l’offesa contro il popolo raccolto in piazza, dovette l’autorità militare ordinare ad un drappello di uomini di salire fino sulle torrette del palazzo delle Poste e bersagliare di là i rivoltosi che, sulla piazza Oberdan continuavano a far gettito di bombe a mano. Finalmente i soldati ebbero ragione degli assediati del Narodni Dom.   E allora la folla…ebbe ragione di ogni ostacolo…fu dato fuoco al mobilio.” ( Il Piccolo, 14-4-20; LFVTLC, pag. 24-25).
Lo stesso giornale però riferisce di tale “Olga Ceunik di anni 27, abitante in via del Toro 12, inserviente all’Hotel Balkan, la quale aveva riportato contusioni in diverse parti del corpo, essendo stata percossa dai dimostranti in piazza Oberdan. Sorpresa dal fuoco, la disgraziata si era rifugiata sul tetto dell’edificio dove era stata colta da un attacco cardiaco”. Poi riferisce che “alcuni nostri soldati, anche a costo della vita non esitarono a gettarsi in mezzo a quella fornace… salendo fino sul tetto per portare soccorso a quattro persone che avevano cercato rifugio al sommo del fabbricato. L’opera di soccorso riuscì perfettamente e tutti furono salvati.”(Che vengano poi bastonati anche loro? Da dove erano evacuati intanto i bombaroli del tetto?)

Lo storico del movimento operaio triestino Giuseppe Piemontese, un autodidatta dalla vita romanzesca, presente al fatto, scrive, usando chissà  perché lo pseudonimo Tiberio: “Vorrebbero dare l’assalto all’edificio, ma le porte sono solidissime e ben sprangate. Nasce un caos del diavolo. In mezzo ai dimostranti scoppia una bomba a mano. Vi sono quattro feriti, tra i quali un commissario di polizia e il ventitreenne tenente di fanteria Luigi Casciana, di Caltanissetta, che poi muore all’ospedale. Segue un’altra esplosione e gli assalitori scappano a gambe levate,urlando invettive. Entrano allora in azione le guardie regie che fiancheggiano gli assalitori, come pure i soldati della Caserma grande che era di fronte, e iniziano una fitta sparatoria contro le finestre dell’edificio. Dopo un po’ tornano gli eroi fuggiti, capitanati da Carlo Lupetina, carichi di bidoni di benzina e dei mezzi per sfondare le porte. Entrano senza incontrare resistenza e dopo pochi minuti dalle finestre del pianterreno escono le fiamme…La verità è che l’orda di invasati urlanti e sbraitanti, con le bave alla bocca – e chi scrive li ha visti coi propri occhi – parevano pazzi furiosi evasi dal manicomio, che non sapevano neanche più distinguere amici da nemici. Francesco Giunta e Carlo Lupetina che li guidavano, naturalmente, sapevano benissimo quel che facevano. Ma siccome molti degli assalitori erano poco pratici di armi e particolarmente del modo di usare le bombe a mano, si può facilmente comprendere come gli ordigni di morte possano essere scoppiati loro fra le mani.” (Tiberio, “Il fascismo a Trieste. 1919-23”, Udine, Del Bianco 1956)

Proprio come il Farinacci aveva deciso di risolvere a modo suo le impasse della verità sull’uccisione del povero Nini, ecco qui un altro fascista “critico” deciso a risolvere a modo suo le impasse della battaglia del Balkan: si tratta di Giulio Cesari, grintoso giornalista triestino, una specie di Indro Montanelli dell’epoca, noto anche per essere stato fidanzato di Matilde Serao. Scrive: “Fu detto che dalle finestre si sparasse sulla folla; la circostanza non fu appurata. Esplosioni si udirono, e determinarono un movimento d’ira popolare che condusse all’incendio del palazzo”. (Giulio Cesari, “Sessant’anni di vita italiana – Memorie della Società Operaia Triestina”, Trieste 1929, pag. 220)

Potremmo anche passare ad altro argomento, però c’è un particolare, come potremmo definirlo, unheimlich sarebbe la parola giusta, un “neo” insignificante ma che irresistibilmente attira la nostra attenzione. Quasi mimetizzato in seconda pagina nelle cronache del Piccolo, come il teschio anamorfico nel quadro di Holbein “Gli ambasciatori”. Il giorno 15 il quotidiano pubblica una specie di intervista a un “viaggiatore, testimone oculare che si trovava nell’interno dell’Hotel Balkan e poté seguire esattamente le prime fasi della dimostrazione così da essere in grado di ricostruire con sufficiente precisione lo svolgimento dei fatti. Egli ci ha detto: abitavo da alcuni mesi in una stanza al terzo piano del “Narodni Dom”. Ieri, al momento della dimostrazione, salii nella mia camera per trattenermivi e non essere confuso con i rappresentanti di alcun partito.” Lasciamo stare l’excusatio non petita, ma dove gironzolava prima, questo viaggiatore di non definita nazionalità? Non era meglio andarsene? Dice che “vide esattamente che dal mezzanino dell’albergo che corrispondeva all’appartamento dove avevano sede i locali della Società Slava fu gettata nella piazza una bomba a mano che esplose con enorme violenza”… È un bugiardo e probabilmente un depistatore. Dalle finestre del terzo piano è impossibile vedere le finestre del mezzanino, neanche sporgendosi di mezzo busto, essendo queste rientranti rispetto la struttura muraria e avendo quelle un davanzale profondo e sporgente. Verificato. In realtà, fatta salva l’ambiguità, come abbiamo detto, tra II° e III° piano, è proprio da dove si affacciava lui che la bomba dovrebbe essere stata lanciata. Il viaggiatore si dimostra subito un fiume in piena di notizie. Sa tutto, vede tutto, anche troppo. Ora insinuante, ora modesto, ora vanaglorioso. Si ritrae dalla finestra solo quando si vede preso di mira. Già che c’è, è lì e lì per salvare la Roblek. L’unico racconto senza infingimenti ci pare riguardare la sua fuga: per forza, avviene con testimoni! Giunto in strada, invece di filarsela per via della Geppa, gira l’angolo tra gli spari per guardare bene “quattro individui che facevano fuoco sulla piazza.”(all.n°6).
Non vorremmo, ma non possiamo dimenticare quanto riferisce lo storico Carlo Schiffrer con una nota in un articolo che abbiamo già citato: un certo Bercè gli disse che nel 1943, tra 25 luglio e 8 settembre, trovandosi nel carcere triestino del Coroneo, lui antifascista in non voluta compagnia di alcuni irriducibili fascisti, peraltro trattati meglio dalle guardie carcerarie, udì uno di costoro vantarsi di essere stato colui che aveva preparato e attuato la provocazione con il botto dall’interno del Balkan.
Come diceva l’ineffabile Cesari? “Esplosioni si udirono…”

Le cronache e le prese di posizione in città dei due giornali ostili ai fascisti sono straordinariamente sommesse, si direbbero auto-censurate. L’Edinost, organo degli Sloveni, che esce appena il giorno 17 causa le devastazioni subite la sera stessa del 13, dà la sua versione dei fatti negando ogni addebito agli Sloveni di aver sparato, tuttavia fa appello alla compostezza e a non raccogliere provocazioni. Il Lavoratore, organo dei socialisti, esprime sdegno e “rammarico” per l’atto di violenza in sé.
Esulando un po’ dal nostro tema, dobbiamo ricordare che a Trieste, mentre i primi comunisti si organizzavano, i massimalisti “serratiani” guardavano anch’essi già a Lenin, ma la maggioranza dei socialisti era riformista o “austromarxista”.  La distanza tra  le due organizzazioni dei socialisti e degli Sloveni, naturalmente meno marcata a livello proletario, è esemplificata dalle parole di un giovane militante socialista di quei giorni, che sessant’anni dopo detta, esprimendosi in dialetto, le sue memorie di rivoluzionario avventuroso allo storico Claudio Venza: “Me ricordo mio papà, in quela volta, el diceva, i socialisti diceva: i ga atacà i Slavi ma da noi no’i vignirà, a la Camera del Lavor no’i vien o al Lavorator. Me ricordo che iera caldo, lui iera in maieta … disi: i nazionalisti se bati tra de lori. Sai, iera: se i ciapa i altri, a noialtri no’i ne ciapa. (Umberto Tommasini, “L’anarchico triestino”, Edizioni A, Milano, 1984)

La massima autorità governativa, in questo caso il Crispo Moncada, trovandosi il Mosconi a Roma, deve relazionare al governo il fattaccio. Nelle gerarchie statuali, e anche in ogni altra gerarchia, vige, da che mondo è mondo, questa regola: chi sta sopra esige da chi sta sotto la più scrupolosa quanto riservata verità nelle informative, tanto ci penserà poi lui eventualmente a mescolare le carte, Non funziona mai, chi sta sotto, per ragioni che vanno dalla piaggeria all’antiveggenza, giudica pericolosa la nuda verità. Il Moncada riferisce ciò che gli pare opportuno. Giolitti e Sforza sono preoccupati, chiedono spiegazioni al Mosconi che a sua volta telegrafa a Trieste, un po’ irritato per il primo, tempestivo ma assai striminzito, rapporto del Moncada. Questi aveva semplicemente girato al ministero il telegramma del Giungi per prendere tempo senza prestare il fianco a critiche. Poi legge le due relazioni complete, del Giungi (all. n° 4) e del Perilli (all. n° 5), e decide di attenersi esclusivamente alla prima. Perché? La risposta è facile. Tra il pensoso vice-commissario civile e i suoi due amici rimasti in città gira fin da subito una parola d’ordine, giudiziosamente amplificata dall’Alessi: niente di grave sarebbe successo se gli Slavi non avessero provocato i manifestanti. Ahi, rischia di non reggere! Non solo mal si concilia una tale certezza con i 410 tutori dell’ordine di ogni arma predisposti intorno al Balkan, non solo mal si concilia con il fatto che nella stessa sera anche a Pola viene bruciato il Narodni Dom, ma soprattutto mal si concilia con il fatto che in via Mazzini gli squadristi avevano già sparato, cosa che il Perilli malauguratamente riporta!

Sui singoli fatti particolari, se si vuole arrivare a qualche certezza, bisogna guardarsi dallo sposare una o l’opposta versione, meglio limitarsi all’informazione, pur impoverita nei particolari, che si ottiene dall’esame del minimo comune nelle informazioni. C’è concordanza tra tutte le molteplici fonti nell’affermare che il Casciana fu ferito tra i primi nei primi momenti del conflitto sotto il Balkan e che fu ricoverato all’Ospedale Maggiore, allora Civile,  in un reparto “paganti”.
Una cosa salta agli occhi subito: nei primi giorni nessuno, né giornalisti, né medici, né autorità civili, né tanto meno  militari mostra di preoccuparsi del ferito che è destinato a diventare la terza vittima in ordine cronologico ma anche la più importante, l’eroe del Balkan per antonomasia. Il comandante dei carabinieri lo menziona solo nel secondo rapporto del giorno 16 (all. n° 4), che segue il telegramma del 13. Il questore invece nel suo tempestivo rapporto del 13 fa rientrare il Casciana tra altri anonimi manifestanti, pur essendo stato ferito, secondo tutte le ricostruzioni, vicino e contemporaneamente al vice-commissario Valentino (all.. n° 5). Nessun militare, né di basso né d’alto grado, lo menziona nelle dichiarazioni rese nel corso e a conclusione dell’inchiesta intra moenia militaria che doveva appurare le sequenze del conflitto a fuoco. Ben poco viene nominato fino al giorno che precede il solenne funerale, a conferma di una regola: eroi si diventa quando non si ha più la possibilità di sottrarsi a tale onore. È anche strano che al funerale non presenzierà lo Spreafico: in compenso sarà presente, forse a Trieste di passaggio, quel generale Ferrero che aveva proclamato l’annessione dell’Albania nel ’17 e al quale si ispirerà  Emilio Lussu per dipingere la figura del pazzo generale Leone in “Un anno sull’altipiano”.

Già abbiamo detto della prima relazione telegrafica fatta dal comandante dei carabinieri Giungi il giorno 13 e della sua più ragionata stesura del giorno 16, preferita dal Crispo Moncada rispetto la tempestiva e probabilmente più veritiera relazione del questore Perilli; ebbene, è proprio il colonnello Giungi ad aggiungere in quella seconda stesura, menzionando il Casciana in quel momento convalescente al Maggiore, che si tratta di un “tenente  del 142° fanteria qui in licenza in attesa di congedo”(all. n° 4). Il documento viene protocollato, ma nessuno si preoccuperà in seguito di quella notiziola assolutamente esatta.

C’è una buonissima ragione, diremmo risolutiva, per non dubitare di tale e non altro stato professionale del tenente Luigi Casciana in quei frangenti. La brigata Catanzaro alla quale apparteneva, con il 141°,  Il 142° reggimento di fanteria, era stata sciolta esattamente un mese prima. Per questo motivo si era trasferito dalla caserma di acquartieramento, la caserma Oberdan, a casa della fidanzata dalla quale aveva avuto quattro mesi prima un figlio. Abbiamo interpellato un militare studioso di usanze militari: è escluso che dal 142° reggimento della Catanzaro un ufficiale fosse trasferito, né prima né dopo lo scioglimento della brigata, al 47° oppure al 48° reggimento della brigata Ferrara in parte acquartierata nella caserma Oberdan. Non poteva perciò essere tra quei soli militari del regio esercito che quella sera erano comandati di supporto all’operazione di mantenimento dell’ordine pubblico in prossimità del Balkan. Sta di fatto che viene ricoverato all’ospedale civile alle 18,30, dove qualcuno, non è detto né lui in persona né immediatamente, dice che era stato colpito mentre comandava un plotone.

Che non avesse alcun ruolo ufficiale di comando quando venne ferito è dimostrato altresì dalla tempistica. Nuovamente ci avalliamo dell’esame del minimo comune nelle informazioni: c’è concordanza tra tutte le fonti sul fatto che l’attacco o, se si preferisce, il contrattacco, l’avanzata con uso delle armi da parte delle guardie regie e soprattutto del picchetto del 47° è successivo ai primi feriti sotto il Balkan tra i quali c’è il Casciana.

Da qui innanzi la nostra indagine poggerà scrupolosamente sugli atti che il colonnello Sebastianelli, capo del servizio sanitario della guarnigione, condusse, a funerale avvenuto, su quanto riguardava le condizioni e i casi del tenente Luigi Casciana dal giorno del suo ricovero al Maggiore al giorno della sua morte.
Prima però ci pare doveroso chiarire una volta di più e definitivamente il nocciolo della questione e, riguardo a questo, la nostra posizione e le nostre intenzioni.
A ben vedere, la problematica per cui si muove la fondazione Rustia Trane a supporto della richiesta toponomastica dell’UNUCI, ruota attorno UN DILEMMA: è vero o falso ciò che scrive nel 1932 Michele Risolo, storico del fascismo a Trieste, per introdurre il testo di un manifesto del fascio di combattimento triestino, pubblicato a mo’ di epitaffio sul Piccolo il giorno 21?
Notiamo, per inciso, che il giorno precedente sul Piccolo era stato pubblicato un trafiletto con la notizia del fatto luttuoso nella sua versione già ufficializzata e pronta per la Storia anche successiva al ventennio: “Il povero ufficiale, che il giorno delle manifestazioni era comandato di servizio all’esterno del Narodni Dom…”(Il Piccolo, 20-4-20).
Ed ecco cosa scrive il Risolo: “Il 20 mattina decedeva all’ospedale il Tenente Luigi Casciana, di Caltanissetta, rimasto ferito all’addome da tre schegge di una bomba lanciata dall’edificio del “Balkan”. IL FASCIO DI COMBATTIMENTO, AL QUALE  IL CASCIANA, AL PARI DI TANTI ALTRI UFFICIALI, ERA SEGRETAMENTE ISCRITTO, pubblicò, la mattina del 21, il seguente annuncio: <Il tenente Luigi Casciana, colpito da tre schegge di bomba lanciata dalle finestre del “Balkan”, è morto. Era un fascista, cioè un giovane maschio, audace, pronto alla morte e al sacrificio, come tutta la bella schiera di Italiani che nel fango delle trincee affogarono un passato di viltà e di passioni odiose, per rinnovare l’anima nel crogiuolo ardente del ferro e del fuoco. È il primo dei nostri che cade al posto d’onore. I morti di Spalato lo aspettano in cielo. Giovedì mattina avranno luogo i funerali, partendo dall’ospedale militare di Via Fabio Severo. Dalle 9 alle 11 tutti i negozi saranno chiusi in segno di lutto. La cittadinanza che farà ala al passaggio terrà un contegno calmo, silenzioso, solenne. Non un grido, non una imprecazione. Fiori e amore sopra la giovinezza che non ritorna. Anche l’Associazione combattenti delle regioni adriatiche invita…>” (Michele Risolo, “Il fascismo nella Venezia Giulia”, vol. I°: “dalle origini alla marcia su Roma”, Trieste, C.E.L.V.I. 1932)
Non è un nostro dilemma. Monsieur de La Palice potrebbe dire che se il tenente era iscritto al fascio in segreto, che lo sia stato veramente o meno resterà un segreto. Resterà però dimostrato ed inconfutabile che egli si trovava, se si trovava, sotto il Balkan senza  un ruolo militare, ovvero senza essere ufficialmente comandato di alcunché, come tenente di fanteria di complemento in attesa di congedo. Fa bene la pubblicazione della Rustia Trane a intitolarsi “La falsa verità sul Ten. Luigi Casciana”, ma, nell’entusiasmo, rimbalza sul versante opposto e consegna per vera un’altra falsità, imputabile, questa, non ai fascisti, bensì alla “banda dei quattro” servitori dello stato (più uno: in questo caso l’Alessi)  di cui abbiamo fatto le presentazioni qualche pagina addietro.
Come abbiamo sottolineato nel trafiletto sul Piccolo del giorno 20 l’esplicita affermazione sul ruolo militare che avrebbe avuto il tenente quando veniva ferito, così notiamo l’assenza di tale precisazione sia da parte del Risolo nella rievocazione, sia da parte del fascio triestino all’epoca del fatto. Perché allora tutti i quattro servitori dello stato consentono che passi e si consolidi quella prima affermazione tanto infondata da non essere ripresa non solo dal Giunta o dal Risolo, ma neanche dai repubblicani dell’’Era Nuova (21-4-20) che pure qualche volta con i fascisti venivano alle mani? Beh, vi ricordate quello che scrive il Coceani? Si tratta, semplicemente, in quel “clima di congiura contro il governo di Roma”, di assecondare, inventando un morto “DOC”, una speranza dei nazionalisti (e dei fascisti) che in breve si realizzerà: “l’esercito era con noi”.
Per quanto ci riguarda il tenente avrebbe potuto essere un curioso che si soffermasse là, sotto il Balkan.  Ce n’erano, è documentato. Però, se così fosse, a corollario bisognerebbe pur dire che se oggi non si usa dedicare vie ad eroi fascisti solo in quanto tali, non si usa neanche dedicare vie a passanti incidentati.
Sul Risolo merita che ci soffermiamo un attimo: fu squadrista della prima ora più a parole che nei fatti, giornalista e faccendiere di regime, direttore ed editore del “Popolo di Trieste”, organo del PNF locale, definì, all’unisono con il Giunta, l’incendio del Balkan “un capolavoro fascista”. Dopo il ’38 gli capitò di dover difendere la moglie dai rigori razziali, ed anche se stesso come marito di un’ebrea, quella Amalia Popper di cui, si disse, era stato infatuato James Joyce.

Bene o male, il Casciana viene operato (i medici dicono bene…). Supera un inizio di broncopolmonite traumatica, ma subito si osserva in lui una eccitazione psicomotoria che, con il graduale ritorno delle forze, diventa parossistica. Le numerose visite che riceve, che il personale medico non gradisce affatto, invece di rasserenarlo lo eccitano. Vuole fuggire seminudo dalla stanza, aggredisce le infermiere che, eccezionalmente, sono mandate a sorvegliarlo costantemente giorno e notte, benedice il medico in visita, gli bacia le mani, gli chiede di essere chiuso in un armadio, la notte tra il 18 e il 19 aggredisce, strappandole la veste, una giovane che gli fa compagnia; pare sia la sorella della sua donna, la coetanea Malvina  Prandsteatter, che sarà vedova prima di essere sposa e che a casa allatta il figlioletto. La cosa più seccante è che incomincia a minacciare di buttarsi dalla finestra. I medici vengono a sapere che il giovane, anche da sano, risulta nevrastenico.
Il direttore dell’ospedale, Varanini, è preoccupato: il paziente sembra essere conosciuto negli ambienti che contano, comincia ad essere quasi famoso, vi sono aspettative al suo riguardo, proprio mentre sembra meno presentabile per il suo stato psichico. Chiama a consulto, oltre ai due medici curanti, Oliani e Simonis, lo psichiatra primario Salom. Esclusa la camicia di forza per ragioni di opportunità medica, escluso il trasferimento nel reparto psichiatrico per ragioni di opportunità politica o semplicemente per delicatezza, si decide di scaricarlo, termine brutto ma esplicativo, all’ospedale militare, detto ancora, dopo due anni dalla fine della guerra, “di tappa”.
Tra le righe il direttore Varanini ammette di aver insistito a credere, non sapremo mai quanto volutamente, nel suo stato militare di ufficiale effettivo, mentre, in verità, nel  pomeriggio del giorno 19, a decisione presa e mentre già il dott, Simonis si attivava per disporre un’ambulanza, aveva avuto notizie diverse in un colloquio inquietante: “Verso le 4 ½ – 5  da un signore ed un ufficiale a me sconosciuti presentatisi in direzione seppi per la prima volta che il tenente Casciana non era da ritenersi, come io credevo, ufficiale e che dall’ospedale militare essi avevano saputo delle sue condizioni gravissime. A queste/(a) affermazioni/(e) io non potei a meno di rifiutarmi di credere date le informazioni che mi erano state date dai curanti stessi”. Comunque la direzione dell’ospedale militare non pare entusiasta di accogliere l’ammalato, allora il Varanini si agita, chiede, ordina, ma, a quanto pare per difetto di comunicazioni interne, oltre che di ambulanze disponibili, il Simonis imbarca il tenente con un infermiere in un barroccio chiuso e lo spedisce a destinazione. Al Casciana non viene detto dove lo si trasferisce, quando si rende conto di essere all’ospedale di tappa fa “qualche rimostranza”. Muore inaspettatamente dopo poche ore. Il Varanini chiede che venga fatta l’autopsia. (all. n°  7, 8, 9, 11)
Causa del decesso: peritonite.

Siamo perfettamente d’accordo con le deduzioni del buon colonnello Sebastianelli: i responsabili sanitari non si sono comportati nel migliore dei modi, negligenze ci sono state, ma, viste le circostanze, non si ravvisano reati.
Non possiamo però evitare di porci tre domande. Chi erano e da chi erano mandati i due fantomatici visitatori, uno in borghese e uno in divisa, che si preoccupano di chiarire lo stato militare del degente? Illazioni se ne potrebbero fare, ma ce ne asteniamo.
Perché il degente se la prende con la giovane che l’assiste? Una volta tanto cediamo alla tentazione delle illazioni: è possibilissimo che la cognata lo rimproverasse di essersi messo senza bisogno in una situazione che certo non arrecava alcun bene alla famiglia.
Infine, di che natura erano le turbe nervose del Casciana “anche da sano”? A questa terza domanda, visto che niente ci induce a ipotizzare una sua predisposizione caratteriale, si può rispondere così: l’ufficiale reduce era un traumatizzato di guerra. Ne aveva ben donde.

La Brigata Catanzaro era stata, tra quelle della III armata votate all’assalto, una delle più sacrificate  sul fronte di Asiago e sul Carso. Nel corso del conflitto aveva perso più che 3/4 dei circa 6.000 effettivi divisi tra 141° e 142° reggimento, questo per più volte, dati i ricompletamenti. Già tutta la III armata, per quanto “invitta” (più fortuna che giudizio, per qualche storico militare…) resta famosa per il numero di fucilazioni di soldati “codardi” e disertori, che il Cadorna ed Emanuele Filiberto di Savoia facevano a gara ad approvare e raccomandare, ma è proprio la brigata Catanzaro, composta da soldati calabresi ed anche pugliesi o siciliani come il nostro Casciana, che resterà nella Storia per il famoso episodio di rivolta armata avvenuto nel paesino friulano di Santa Maria la Longa nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1917 e per la sua terribile repressione.
Truppa ed ufficiali superstiti dagli assalti alle trincee austriache erano fisicamente allo stremo. Erano stati acquartierati per riprendersi un poco in quella retrovia in attesa di essere riutilizzati. Non parliamo del morale: era vivo dopo un anno l’orrifico ricordo degli “epici” assalti sul Mosciagh, dove si sapeva che di due soldati uno doveva morire eppure, con l’accusa di codardia, s’era provveduto a fucilare, estraendoli a sorte dalla IV compagnia del 141° che aveva sbandato sotto il fuoco, un ufficiale, un sottufficiale e dieci soldati! Per sorte il nostro era sopravvissuto a combattimenti e decimazione e forse, bastone e carota, era stato promosso da sottotenente a tenente di complemento. Ma quanti di quegli orrori il suo animo era riuscito a metabolizzare?
Per capire come poté accadere ciò che accadde in quella notte ci affidiamo alle parole di un reduce letterato: “Ciò si deve all’opera di ‘complementi’ che provengono dai feriti, dai condannati e, soprattutto, dai riformati, che si sono a lungo dibattuti tra una visita e l’altra. Costoro portano il loro disperato attaccamento alla vita. Essi sanno che sul Carso nella  Brigata Catanzaro fatalmente si muore, speranza non c’è…” (Attilio Frescura, “Diario di un imboscato”, Mursia, 1981)
Per maggiori particolari, è uscito recentemente un libro di Marco Pluviano e Irene Guerrini “Fucilate i fanti della Catanzaro”, Gaspari, Udine 2007. C’è anche la tesi di laurea di Giulia Sattolo depositata nel 2009 all’Università di Udine, “La rivolta della Brigata Catanzaro a Santa Maria La Longa. Storia e memoria”.
Nel campo arrivano gli ordini: si ritorna al fronte, a combattere!… Un “no!” imbestialito passa da baracca in baracca. Appena è buio due bengala rossi illuminano il campo, i soldati del 141° escono per primi dai baraccamenti brandendo le armi, minacciano qualche ufficiale che vuole dissuaderli, chiamano alla rivolta quelli del 142°, ci si spara tra la truppa ribelle, qualcuno che spera di risolvere la situazione addirittura con il rivolgimento del fronte bellico, altri che vogliono magicamente tornare a casa, e i lealisti, soprattutto ufficiali e sottufficiali, che preferiscono sfidare la morte sul campo dell’obbedienza. Si piazzano le mitragliatrici  rivolte verso la direzione da cui possono arrivare i carabinieri. Partono colpi contro la villa Colloredo dove abita D’Annunzio (non c’è, arriverà in tempo per vedere l’esito finale in un livido mattino, a battaglia finita: lo racconterà con accenti patetici ed estetizzanti, da par suo). Prendere Santa Maria la Longa? Sono già accerchiati da carabinieri e granatieri. Comincia la battaglia dei disperati. Si combatte per ore nella notte soffocante, la già scarsa lucidità di mente viene meno, i lealisti sono rintanati qua e là, dio sa cosa accade in quel buio illuminato solo dagli spari.
Dov’è il tenente Casciana? Un suo pari grado, Roberto Puleo, siciliano come lui e dello stesso contingente, è mortalmente ferito, non è chiaro da che parte stava. Noi vogliamo immaginare il nostro che combatte per sopravvivere, non importa come, l’aveva certo già fatto, lo fa ora, dovrà farlo ancora e, quando si dice il destino, si troverà, dopo tre anni esatti, nella stessa notte tra il 15 e 16 luglio a combattere in un letto dell’ospedale civile di Trieste, contro una polmonite a complicanza di una laparotomia.
All’alba occhi annebbiati vedono puntate su di sé le bocche da fuoco di grosso calibro pronte a fare un macello, quegli uomini sono troppo stanchi per avere paura, basta, fate di noi quello che volete, tanto, con il primo chiarore torna la verità: “speranza non c’è”. Non si spara più, nel silenzio si sentono i rumori del mattino, qualche gallo, qualche cane, poi il passo cadenzato del primo plotone di carabinieri.
4 soldati vengono fucilati sul posto, poi la decimazione, dopo che a qualche colonnello si è detto che di fucilarne 120 forse non era il caso: vengono sorteggiati e fucilati 16 soldati del 142° e 12 del 141°, poi una decina di renitenti sulla via di essere rimandati sull’Hermada e infine, dopo processo, altri tre, giudicati  i caporioni della rivolta.  Uno dei primi fucilati è un vicino di casa del tenente Casciana, il soldato Angelo Morello, un po’ più anziano. Alla  fine del 1918 il tenente è a Trieste e vi rimane.

A conclusione di questo scritto, pur non reputando probabile che la nipote del tenente Casciana lo legga, egualmente vogliamo dirle qualcosa. Gli storici, professionali e dilettanti, possono talvolta conoscere gli atti delle persone su cui indagano, ma i pensieri che li precedono e seguono sono destinati a restare reconditi o nebulosi almeno quanto i loro stessi pensieri prima e dopo la loro ricerca. È il dubbio, il riconoscere che non possiamo sapere tutto né sull’altro né su noi stessi, il vero omaggio alla verità storica. Forse anche alla verità in assoluto, che non esiste per nessuno di noi. Nel nostro caso può essere il vero e unico omaggio da rendere al tenente Luigi Casciana.


Oltre alle fonti citate di volta in volta nel testo con riguardo al tema specifico, la bibliografia che segue è importante per un inquadramento generale dell’epoca:Apih Elio, “Avvento del fascismo a Trieste”, Del Bianco 1957Ara Angelo. Magris Claudio,  “Trieste. Un’identità di frontiera”, Einaudi 1982Chiurco Giorgio Alberto, “Storia della rivoluzione fascista”, Vallecchi, 1929Menini Giulio, “Passione adriatica- Ricordi di Dalmazia”, Zanichelli 1925Piemontese Giuseppe, “Il movimento operaio a Trieste”, Ed. Riuniti 1974Rudinow Dennison, “Italy’s Austrian Heritage”, Oxford, Clarendon Press 1969Sestan Ernesto, “Venezia Giulia”, Bari, Ed. Centro Librario 1965Silvestri Claudio, “Dalla redenzione al fascismo- Trieste 1918-1922”, Del Bianco 1959Silvestri Claudio, “Storia del Fascio di Trieste dalle origini alla conquista del potere”, Libr. Int. Italo Svevo 1968Vinci Annamaria, “Il fascismo al confine orientale” in AA.VV. Storia d’Italia-Le regioni, Einaudi 2002