Corriere della Sera, 1 settembre 2022
L’ambasciatore Usa Jack Matlock ricorda Gorbaciov
Per citare uno dei brani del musical più famoso degli ultimi vent’anni, Hamilton, l’ambasciatore Jack Matlock è sempre stato In the room where it happens, nella stanza in cui succedono le cose. Consigliere politico di Reagan sulla Russia, poi ambasciatore a Mosca dall’87 al ‘91, ha partecipato a quasi tutti gli incontri Usa-Urss dal ‘72 al ‘91.
Quale fu la sua prima impressione di Gorbaciov?
«Mi sembrò molto più giovane dei suoi predecessori, informato su tutto e in grado di portare avanti una conversazione senza fare continuo riferimento agli appunti. La fiducia poi fu una cosa graduale. Cominciammo dagli armamenti, trovando Gorbaciov molto più reattivo di altri. Anche dopo il fallimento di Reykjavik abbiamo avuto la sensazione che sia lui sia Reagan stessero cercando una soluzione. Si scrivevano, anche molte lettere a mano».
E com’erano invece i rapporti tra Nancy Reagan e Raissa Gorbaciova?
«Ne avrei di aneddoti! Sia Reagan che Gorbaciov erano molto legati alle loro mogli, ma Raissa era davvero la principale consigliera del marito. Quando Gorbaciov propose un breve incontro a Reykjavik Reagan mi chiese cosa ne pensassi e io dissi che dovevamo accettare e che sarebbe stato meglio non far andare le first ladies per non pesare sull’organizzazione. Quindi mandammo un messaggio per dire di sì, e che Mrs Reagan non sarebbe andata, ma quando arrivammo Raissa era lì. Più tardi chiesi spiegazioni, ci risposero che avevano avvertito Gorbaciov, ma lui non riusciva a funzionare senza la moglie. E poi quando Raissa venne a Washington, le sue prime parole per Nancy furono: “Ci sei mancata a Reykjavik”, al che lei rispose: “Non ero stata invitata”. Ma la tensione iniziale scomparve presto. Nancy non veniva coinvolta nel processo politico, ma era determinata a che Ronald finisse nei libri di storia come un leader di pace e faceva fuori i falchi».
Sapeva che a Berlino Reagan avrebbe usato la frase: «Signor Gorbaciov butti giù quel Muro»?
«No, ma ne capii la ragione. Eravamo sul punto di firmare l’accordo sulle armi nucleari di medio raggio, ma l’Europa era ancora divisa, e lui voleva che fosse chiaro che c’era ancora tanta strada da fare. Ma non c’è un rapporto di causa-effetto diretto tra quel discorso e la caduta del Muro: Reagan non era nemmeno più presidente, c’era Bush padre. E ricordo che prima che Bush si recasse per la prima volta nell’Est, Gorbaciov mi disse: “Chieda al suo presidente di essere più cauto”. Domandai se potesse essere più specifico. Mi rispose: “Gli dica solo così”. Bush durante la visita non fece menzione del Muro e anzi lodò la perestrojka. Alla fine in quel modo facilitò gli sforzi di Gorbaciov di liberare i tedeschi dell’Est così che potessero abbatterlo loro quel muro. E così accadde».
Qualcuno dice che Bush, o meglio il suo segretario di Stato James Baker, e lei c’era quando accadde, promise che la Nato non si sarebbe espansa a Est.
«È un po’ più complicato di così. A febbraio del ‘90 Baker venne a Mosca per cercare di convincere Gorbaciov a lasciare la Germania unita nella Nato. Aggiungemmo la premessa: assumendo che non ci sia un’espansione dell’Alleanza... Però quello di cui si parlava era un accordo tra gentiluomini, non un impegno legale. Dal mio punto di vista però, una volta che i Paesi dell’Est avevano lasciato il patto di Varsavia ed erano diventati democratici che motivo c’era di espandere la Nato?»
Avreste potuto aiutare di più Gorbaciov alla fine, quando cresceva il malcontento interno, magari con una sorta di Marshall Plan per l’Unione Sovietica?
«Nella primavera del ‘91, già non era più in carica, Thatcher venne a Mosca a parlare con Gorbaciov e volle incontrarmi. Mi disse di appellarmi a Bush perché “aiutasse Mikhail”, disse proprio così. E ricordo che aggiunse: “Sai, io e Ron avremmo fatto di tutto per lui, ci ha fatto risparmiare un centinaio di miliardi al meno”. Io le risposi che il loro sistema economico era irrazionale, il denaro non sarebbe stato d’aiuto. Lei sbottò: “Parli come un diplomatico, perché non pensi come uno statista?”. Aveva ragione».
Lei avvertì Gorbaciov di un possibile colpo di Stato.
«Il sindaco di Mosca Gavril Popov volle vedermi in privato e mi scrisse un biglietto in cui diceva che voleva mandare un messaggio a Eltsin, il quale quel giorno avrebbe incontrato il presidente Bush a Washington. Mi disse che stavano organizzando un golpe contro Gorbaciov, buttò giù quattro nomi e poi fece a pezzi il foglietto e se lo mise in tasca. Ricevuto il messaggio Eltsin disse di avvisare Gorbaciov. Chiesero a me di farlo, ma non mi sentivo a mio agio a fare i nomi perché non avevamo prove, era semplicemente quello che ci aveva riferito il sindaco. E così gli dissi che avevamo queste notizie, ma che non erano frutto di intelligence americana e non potevamo confermarle. Il giorno dopo Gorbaciov parlò con Bush, lo ringraziò di avermi mandato e disse che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Bush fece l’errore di nominare Popov al telefono, che era ovviamente controllato dal Kgb. Ma dopo che il golpe fallì, mesi dopo, Popov disse che era stata una buona cosa perché gli organizzatori capirono che avevano una talpa, rallentarono i preparativi e quando finalmente ci provarono, non erano adeguatamente preparati. Una delle tante ironie della storia».