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 2022  agosto 31 Mercoledì calendario

L’embrione sintetico per i trapianti futuri

«Non vogliamo creare nuove vite, ma desideriamo salvare quelle già esistenti». Gianluca Amadei, lo scienziato italiano del team dell’Università di Cambridge che, insieme al California Institute of Technology (Caltech), ha creato embrioni di topo sintetici, chiarisce subito le finalità del suo lavoro. Lo stesso che spera di poter portare avanti con il suo nuovo ruolo di assegnista di ricerca all’Università di Padova, dove potrà creare un team di ricerca indipendente. Per Amadei e i suoi colleghi internazionali quegli embrioni artificiali con un cervello e un cuore che batte non sono altro che modelli da utilizzare per una ricerca più etica, che non ha bisogno di utilizzare animali. Gli embrioni sono stati creati senza ovuli e spermatozoi.
LE FASI
Amadei e gli altri ricercatori hanno utilizzato solo alcuni tipi di cellule staminali embrionali ed extraembrionali di topo. Quelle della struttura necessaria al nutrimento dell’embrione (trofoblasto), cellule indotte dell’endoderma extraembrionico, e cellule staminali embrionali, successivamente indirizzate per svilupparsi in una struttura simile a quella di un embrione vero, chiamata ETiX-embryoid. Ci sono voluti poco più di 8 giorni, per trasformare questi ammassi di cellule in embrioni così sviluppati, lo stesso tempo impiegato dall’embrione di topo vero e proprio per raggiungere uno stadio simile.
Questi non sono i primi embrioni di topo sintetici. Il primo è stato creato dallo stesso gruppo 5 anni fa. A partire dalle cellule staminali embrionali. Ma quell’embrione non era in grado di percorrere tutte le fasi dello sviluppo. «Nel nuovo esperimento siamo riusciti a indirizzare le cellule giuste nel modo giusto e a farle interagire fra loro in modo che si organizzassero spontaneamente senza alcun stimolo esterno», spiega Amadei. L’embrione si è sviluppato per otto giorni e mezzo, dando origine a una struttura complessa e differenziata che comprende alcune regioni del cervello, il tubo neurale che dà origine al sistema nervoso, una struttura simile a un cuore in grado di battere e un’altra simile all’intestino. Un embrione di questo tipo e a questo stadio di sviluppo non potrebbe mai essere impiantato in un topo femmina e, quindi, né tantomeno potrà diventare un topo». Del resto non è mai stato questo lo scopo dello studio.
L’obiettivo principale, assieme a quello di ripercorrere le tappe normali dello sviluppo, è quello di riprodurre le caratteristiche osservate nei cosiddetti topi di laboratorio «knockout», ossia privati di un gene allo scopo di studiare i processi fisiologici di sviluppo o le cause di malattie. «Non ci interessa creare vite, ma capire come si formano e si sviluppano - evidenzia Amadei - solo in questo modo possiamo comprendere, ad esempio, il perché alcune gravidanze falliscono. Strutture come quelle che abbiamo sviluppato potrebbero consentirci, in futuro, anche di studiare le malattie e le possibili cure senza dover necessariamente fare esperimenti sugli animali». Nel frattempo, secondo quanto riferito dal California Institute of Technology (Caltech), lo stesso gruppo di ricerca sta lavorando a un modello di embrione umano analogo a quello di topo appena ottenuto e l’obiettivo è riuscire a comprendere passaggi cruciali dello sviluppo embrionale.
GLI ORIGAMI
«Sarebbe il passo successivo, ma è molto più complesso di quanto abbiamo fatto con le cellule di topo - spiega Amadei - I segnali che hanno spinto le cellule staminali di topo a unirsi e creare il cuore non sono gli stessi che farebbero altrettanto con le cellule staminali umane. Dobbiamo pensare agli embrioni come se fossero degli origami: solo con le pieghe giuste e al momento giusto si può ottenere la forma desiderata. Solo che con gli embrioni non ci sono le pieghe’ ma segnali ben precisi che dobbiamo ancora decifrare per poter arrivare al risultato desiderato». Non è un traguardo impossibile, ma richiederà solo più tempo. Ma quando gli scienziati ci riusciranno potremo avere potenzialmente a disposizione piccole «fabbriche viventi» con cui creare in laboratorio organi per i trapianti destinati ai pazienti in lista d’attesa. «È certamente uno degli obiettivi più ambiziosi per chi, come me, fa questo tipo di ricerca», conferma Amadei, concordando con le osservazioni di Magdalena Zernicka-Goetz, la scienziata che ha guidato il gruppo di ricerca di Cambridge.