La Stampa, 31 agosto 2022
La rivolta di Cioran contro l’imbecillità
Bisogna essere delusi, se non amareggiati. Avere coltivato il cinismo come un’alternativa al sentimentalismo, o un suo rovescio. Bisogna essere capaci di stilizzare la vasta materia dell’esistere per trarne una piccola, e soprattutto ruvida, verità universale. I buoni aforisti sono stati allenati da decenni di disincanto; trovano più seduttiva (perfino sensuale) l’intelligenza di quanto possano esserlo i corpi. Trattano i malcapitati sul pianeta Terra in forma umana perlopiù come coscienze che necessitano di risveglio. E, soprattutto, li giudicano: senza mai offrire attenuanti. Quasi mai.
In questo senso, la lettura di Finestra sul nulla, la raccolta di annotazioni e frammenti di Emil M. Cioran inediti in Italia che Adelphi manda in libreria (a cura di Nicolas Cavaillès e tradotta da Cristina Fantechi) funziona da dispensa universitaria. Astenersi produttori di massime melense buone per i social. L’aforista alla Cioran è un anti-romantico: «Ho trovato più lacrime tra i cinici che tra coloro che hanno il sogno sulle labbra». Lo scrittore rumeno sedotto dall’esistenzialismo e trapiantato a Parigi mostra, alle solite, di non tollerare nessuna blandizia. E muffendo gloriosamente – così dice lui – nel Quartiere Latino, alla metà degli Anni 40, sfoga i suoi umori e malumori su pagine che diventano, per paradosso, un atto di sopravvivenza emotiva. Forse proprio perché la confidenza con la morte, il radicale disgusto per i mortali costringono Cioran a inventarsi uno spazio di resistenza – cupa, disincantata, ferita – nella scrittura. Nell’appuntare o meglio nel refertare mal di pancia figurati, gridi silenziati ma che erompono dal profondo, nel descrivere interminabili domeniche dell’esistenza: «Per quanto possano variare i paesaggi del mondo, nei pomeriggi della Domenica si assomigliano tutti. Che ci si trovi in una capanna o a Parigi, non c’è modo di impedire lo sfogo del male interiore. Ovunque si voglia fuggire il maledetto settimo giorno, ogni rimedio si rivela impotente davanti a una malattia già prevista nella cronologia della Genesi».
Al volumetto Adelphi manca un’indicazione posologica: occorre qualche cautela nell’auto-somministrazione di questi aforismi neri, per evitare una overdose di «tenebra lucida». Cioran sa maneggiare i suoi farmaci o anti-farmaci con la perizia di un farmacista del nichilismo, ma il lettore all’eterna ricerca di leggerezza del XXI secolo potrebbe esserne traumatizzato. Meglio sarebbe che ne fosse, con dosi congrue, sfidato: sfidato, voglio dire, a pensare in modo dolente. Che è forse il modo più esatto (e pericoloso) di pensare – al mondo, a sé stessi. Presuppone un atto di rivolta disarmata, una ribellione totale: contro tutti, contro il Tutto. È destinata, in ogni caso, a finire nella stanchezza e nel disgusto, assicura Cioran. Meglio: nel silenzio. In fondo, lo spazio bianco che trascuriamo – appena sporcato da un asterisco – tra aforisma e aforisma, tra un frammento e l’altro, è una estensione grafica del non detto, di ciò che resta sulla punta della lingua. E che, nel caso di Cioran come di ogni vero e disperato aforista, determina una specie di volume parallelo. Fatto, per l’appunto, solo di pagine bianche.
«I pensieri umani sono iscrizioni mortuarie le cui reverenze sono destinate solo al Lombrico, l’unico profittatore dell’eternità». Può bastare? Forse no. «Quando si spreca il tempo in compagnia dei propri simili, il disgusto si trasforma in una domanda: continuare a tenersi in posizione verticale non è un supremo sforzo, una distinzione eccessiva?». Si legga dunque Finestra sul nulla in posizione supina, arresa, come di chi è pronto all’amore (l’unica impresa terrena, lo ammette perfino Cioran, che sia «lontana dall’universo dei vermi, perché il tempo, che è il loro elemento, non è la sua forza»). Dicevo pronti all’amore, perché con un autentico sforzo di sintonizzazione sulle frequenze ispide di Cioran si potrebbe perfino cogliere qualche lampo di tenerezza. Troppo. Ma di pietà sì, la pietà vasta e larga di un’anima innamorata del mondo ma non ricambiata, schiacciata e mortificata e ingiuriata dall’imbecillità, dal dolore, dal dolore senza ragione, dal ricatto di ogni infiltrante nostalgia. Amore, «demenza delle narici»! Senza quello, però, respirare sarebbe «una depravazione indicibile». Cioran lo sa, ma butta lì il concetto come per distrazione, o imbarazzato: perché gli tocca la parte che si è scelto, di cui in qualche modo è ostaggio, del vecchio più vecchio di ogni possibile vecchio. Di quello che si figura la vita come un’ingiuria «in mezzo a una preghiera», che salva qualche poesia e la musica di Bach, e lascerebbe marcire – anzi, imputridire – tutto il resto. Perché tanto, pur volendo, non c’è nessuna alternativa. E lo si intende, per essere precisi, in quelle ore di certi pomeriggi in cui – per non piangere – «ci si rifugerebbe in qualsiasi cosa: nella folla, nel chiasso, nella Bibbia o nell’omicidio». Rivelazioni indigeste ma non necessariamente superflue nell’epoca dei meme (anche elettorali), del cazzeggio, dello scherzo infinito, dell’imbecillità esibita come un lusso. Ma nessuno, avverte Cioran, è meno oppresso dell’imbecille.